VERDI Un ballo in maschera F. Meli, R. de Candia, C. Giannattasio, M. Ermolaeva, A. M. Sarra, M. Camastra, J. P. Huckle, R. Dal Zovo, G. Petouchoff, C. Isoardi; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Donato Renzetti regia Leo Nucci ripresa da Salvo Piro scene Carlo Centolavigna costumi Artemio Cabassi
Genova, Teatro Carlo Felice, 29 gennaio 2023
«Dal mio punto di vista, nel caso dell’opera, la regia è del compositore… Io non mi ritengo un regista, il mio obiettivo è quello di mettere in scena il pensiero di Verdi, la sua regia. Se il pubblico non si accorgerà della mano di un regista, ma potrà commuoversi e capire ciò che Verdi voleva trasmettere, sarò felice del mio lavoro». Le affermazioni di Leo Nucci nelle «Note di regia» contenute nel libretto di sala possono sembrare un po’ diminutive del suo ruolo, e oggettivamente lo sono: tuttavia ammetto volentieri che rispetto a certi spettacoli in cui l’impegno principale richiesto allo spettatore parrebbe quello di indovinare il «messaggio» del regista e la sua «visione» dell’opera (che a volte vistosamente ne prescinde dalla conoscenza), i miei favori vanno di gran lunga a questo, che molti bolleranno come «tradizionale», ma nondimeno ci conduce davvero a riflettere sui significati profondi di un’opera per la quale peraltro Verdi si premurò di lasciarci una delle sue Disposizioni sceniche. Anche perché nel caso di questo Un ballo in maschera battezzato a Piacenza nel 2016 (che avrebbe dovuto approdare a Genova già nel 2020, se non si fosse messo di mezzo il covid) la regia non appare poi per nulla rinunciataria: alcuni nodi fondamentali sono anzi suggeriti con intensità insolita, come ad esempio la simbiosi tra Riccardo e Oscar, che si estende dal momento in cui appaiono in scena, entrambi reduci da un sonno ristoratore, a quando il Conte muore tra le braccia del paggio; simbiosi che richiama altre interazioni analoghe, come quella tra il Duca di Mantova e Rigoletto nel primo quadro dell’opera eponima e soprattutto tra Don Giovanni e Leporello (e Verdi evoca chiaramente nell’ultima scena del Ballo il capolavoro mozartiano). Mentre l’accento posto sulla specificità del contesto originale (o meglio: imposto dalle censure in luogo della Svezia di Gustavo III), e in particolare sull’oppressione degli afroamericani nell’America schiavista, vale a disinnescare con un tocco di sensibilità contemporanea la famigerata frase sull’«immondo sangue dei negri», peraltro pronunciata da un personaggio come il Giudice per cui Verdi non sembra nutrire troppa simpatia. Questa ambientazione tra l’altro, se può indulgere forse a qualche sottolineatura di troppo (come nell’Inno che conclude il primo atto, qui sotto il tiro delle guardie), conferisce a tutta la scena dell’«abituro dell’indovina», in questo caso una santona guaritrice, una fluidità e una credibilità ben difficile da incontrare negli allestimenti attualizzanti. E più in generale l’intima coesione con le scene di Carlo Centolavigna e con i costumi di Artemio Cabassi ha creato uno spettacolo capace, magari con qualche ingenuità, di rispondere in profondità a quella che è una delle partiture più ricche di colori e atmosfere del catalogo verdiano.
Un’operazione come quella di Nucci (qui ripresa da Salvo Piro) viene esaltata ovviamente quando i ruoli vengono incarnati da cantanti dotati di adeguate doti e carisma. Nel caso di Francesco Meli questo atout è assicurato, risultando in un ritratto nel quale la stessa ricchezza emotiva del personaggio costituisce la radice delle sue contraddizioni e in definitiva del suo fallimento. Il Riccardo lungocrinito, edonista e spavaldo (vedi il modo in cui individua subito e ironicamente omaggia i cospiratori) che ci si presenta nel primo atto si rispecchia nella vocalità smagliante ma elegante del tenore genovese; nella Canzone del Pescatore la sua impostazione vocale sempre un po’ aulica svela, pur rispettando pienamente la vivacità della pagina (salto di tredicesima compreso!), la natura non certo plebea di Riccardo. Ma nel complesso emerge soprattutto una passionalità che nel duetto del secondo atto lo espone fatalmente ad anteporre l’amore all’amicizia. La finezza del fraseggio di Meli e la ricchezza di sfumature in «Ma se m’è forza perderti», nel Duettino, nella bella morte, arricchiscono infine coi tratti di sensibilità e magnanimità il ritratto a tutto tondo di una figura che nella sua assoluta unicità possiede un poco di tanti personaggi tenorili verdiani, passati o da venire: l’esuberanza del Duca di Mantova, le malinconie e i cambi di rotta di Don Carlos, l’eroismo di Radamès, forse persino la problematica nobiltà di Otello.
Carmen Giannattasio si è avvalsa di una prima ottava veramente notevole per farci empatizzare coi turbamenti e i tormenti di Amelia, particolarmente nella Scena che apre il secondo atto (dove «t’annienta, mio povero cor!» è apparso davvero eloquente), mentre nel successivo Duetto con Riccardo ha saputo far affiorare dalla sposa di Renato il nobile profilo di Elisabetta di Valois. Maria Ermolaeva, pur non disponendo di una voce imponente, ha proposto un’Ulrica dignitosa, coerente con la visione del personaggio dell’allestimento; senza incappare in nessuna caduta di gusto, ma mai risultando davvero incisiva. Siamo abituati poi ad apprezzare Roberto de Candia nel repertorio brillante più che in quello drammatico: il baritono pugliese in effetti difetta un poco di accento autenticamente verdiano, tuttavia con la morbidezza di «O dolcezze perdute! O memorie» ha saputo ben raccordare la repentina trasformazione di Renato da «buono» a «cattivo» della vicenda, e il pubblico ha mostrato di apprezzare la sua interpretazione. A Oscar, come accennato, la produzione riserva una statura particolare, una sorta di mozartiano Cherubino mosso da istanze libertarie (vedi l’energia con cui si contrappone all’ordine costituito rappresentato dal Giudice); Anna Maria Sarra ne ha offerto un’incarnazione convincente, non solo nelle pagine esuberanti come l’«Allegro brillante» «Di che fulgor, che musiche» ma anche quando rabbrividisce alla profezia di Ulrica, sottolineando il suo autentico affetto per il Conte.
Tra gli altri si è apprezzato in particolare l’eloquente Silvano di Marco Camastra; la direzione di Donato Renzetti è apparsa invece idiomatica ma un po’ sottotono, avara di autentiche illuminazioni.
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli