BEETHOVEN Concerto per pianoforte n. 4 in SOL op. 58 SHOSTAKOVICH Sinfonia n. 5 in re op. 47 pianoforte Maria João Pires Filarmonica della Scala, direttore Riccardo Chailly
Milano, Teatro alla Scala, 18 maggio 2015
In un’epoca in cui fanno notizia i debutti di interpreti giovanissimi nelle sale più prestigiose del panorama internazionale, sia sul podio sia in qualità di solisti, la prima volta al Teatro alla Scala di Maria João Pires, sulla soglia dei settantun anni, sembra un paradosso. Per l’occasione la schiva pianista portoghese si è presentata con una pagina a lei particolarmente congeniale, l’umbratile e dolcissimo Quarto concerto di Beethoven. Congeniale al suo suono piccolo e molto ben curato, al suo fraseggio antieroico ed antiretorico. Congeniale, soprattutto, alla sua inclinazione – che a onor del vero dovrebbe essere inclinazione di tutti gli interpreti – a scavare a fondo nelle partiture, a lavorarle in ogni dettaglio.
L’attacco dell’Allegro moderato è cordiale e semplice, come se la Pires suonasse nel salotto di casa, come se ad accompagnarla ci fosse una piccola orchestra (invece la Filarmonica è inspiegabilmente ad organico pieno e sul podio Chailly ha il suo bel daffare per alleggerire le sonorità). Il suono piccolo e sottile che della pianista portoghese rappresenta, per così dire il marchio di fabbrica, nella cadenza del primo movimento si trasforma in uno spolverio, sottile ed evanescente. Il fraseggio, raffinato e amabile, a tratti si accende di una vitalità misteriosa ed inquieta, come nei trilli dell’enigmatico secondo movimento, in cui Chailly ottiene dalla Filarmonica sonorità legatissime e molto compatte. È un Quarto ben rifinito e ben levigato nell’insieme, con attacchi e chiuse impeccabili, nel segno di una ricerca continua di una penombra sonora che nel Rondo conclusivo approda a momenti di autentico incanto, come nel dialogo, condotto sul filo del silenzio, tra pianoforte e violoncello. Curioso, però, che nel bis, una delle beethoveniane Bagatelle op. 126, la Pires appaia un poco sopra le righe. E curioso che la Filarmonica a tratti sembri più preoccupata di non disturbare la solista che impegnata a interpretare la partitura.
La compagine di Chailly, però, si riscatta a pieni voti nel secondo tempo, con una Quinta sinfonia di Shostakovich impeccabile tecnicamente e di grande intensità drammatica. Gli archi sono tirati a lucido ed in generale l’orchestra è molto reattiva ai gesti di un direttore che la tiene in pugno con autorevolezza, anche se a volte si vorrebbe una maggiore compattezza sonora. Nel terzo movimento Chailly riesce ad ottenere un cantabile doloroso, appena mosso da una punta di vibrato, in cui si avverte, lancinante, la memoria di sonorità mahleriane, fino all’allucinato crescendo degli archi. L’Allegro non troppo in chiusura della sinfonia è superbo nel suo crescendo di tensione, millesimato in ogni nota a formare un unico grande arco emotivo culminante nel fragore – ma è un fragore che scoppia dall’interno – delle ultime battute.
Luca Segalla