BEETHOVEN Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93; Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 S. Blanch, E. Filipponi, B. Richter, J. Shanahan; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Daniele Gatti
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 27 giugno 2024
Personalità singolare quella di Daniele Gatti e assai difficile ad inquadrarsi. L’abbiamo da anni più e più volte ascoltato senza riuscire a trarne un’opinione che non fosse poi contraddetta all’occasione successiva e poi nuovamente ad un’altra ancor seguente. I lettori di MUSICA ricorderanno il nostro entusiasmo per quel suo Tristan und Isolde al Teatro dell’Opera di Roma (poi giustamente in DVD) o per certi suoi Brahms e Schumann e Mahler straordinari. Così come ci parvero troppo diseguali il suo Rigoletto o un Concerto in Piazza verdiano a Spoleto o altro in varie stagioni ceciliane. Eravamo perciò assai curiosi di aver contezza del suo attuale Beethoven o quantomeno (non avendo potuto seguire l’intero ciclo) di due sinfonie, per opposti motivi tra le più complesse delle Nove, quali l’Ottava e la Nona. Non siamo usciti troppo convinti né dell’una, né dell’altra. L’Ottava è un capitolo outsider del catalogo beethoveniano, forse assimilabile solo all’ouverture La consacrazione della casa: la retrospezione dell’Antico da parte di Beethoven, soprattutto del barocco haendeliano, ma anche di certo mondo peculiare del sinfonismo haydniano, hanno fatto sì che il genio di Bonn qui, tra il serio e il faceto, scrivesse un capolavoro fatto di humour, di ammiccamenti, di ironia, di mirabili giochi strumentali da delibarsi con il buon gusto e la pazienza di chi centellina un vino prezioso e non lo trangugia tutto d’un fiato. Ciò che Gatti ci è parso invece fare, sin dall’inizio prendendo tempi rapidissimi e soprattutto sgarbati, sovente con fraseggi come sincopati e tronchi. Il suono sinfonico di Gatti, in verità mai particolarmente bello, qui è apparso più d’altre volte ruvido e poco elegante (esito anche d’un numero limitato di prove?). Di modo che apprezzabili ci son parsi solo i due tempi centrali, soprattutto dove le prime parti dei fiati e il primo corno emergevano per libertà e bravura assolute. Il celebre ultimo movimento, l’Allegro vivace, sembrava voler fuggire via senza reale analisi delle problematiche stilistiche e musicali che vi sono invece date a profusione dall’Autore. E che la seguente storia della musica avrà come preziose, Bruckner in testa.
La Nona sinfonia risultava nell’insieme meglio curata e forse meglio pensata. Certo non può tacersi che tal lettura di Gatti si appaghi più d’una mera bravura orchestrale – a tratti impressionante, anche per la risposta eccezionale dei professori ceciliani – che di uno o più scandagli in quel mare infinito e profondo che è l’ultima sinfonia beethoveniana. Nulla di cosmico nello sconvolgente actus tragicus del primo movimento, ivi compresa quella tempesta che si scatena sul lungo pedale dei timpani, qui assai contenuta quanto ad impatto e fonico e concettuale. Notevole invece lo Scherzo: e proprio per la violenza rabbiosa che la tenzone strumentale voluta dal direttore pone in essere, certo a scapito d’un Trio il cui goethiano senso di bucolica purezza era del tutto omesso. Così come l’indicazione “Adagio molto e cantabile” appariva altrettanto trascurata, in favore di un “tempo d’Allegretto” arbitrario e che francamente va tra le cose meno attendibili da noi udite quanto alla Nona sinfonia. Il Finale prodigava quantità e a tratti qualità di suono cospicue assai, grazie anche ad un coro spettacoloso; ma di sguardi verso l’Alto, di Umanità chiamata alla Fratellanza, di slanci verso l’Assoluto se ne percepivano pochi. E se il basso hawaiano Jordan Shanahan era commendevole assai, il tenore Bernard Richter sbandava paurosamente. Come ormai d’uso, applausi fragorosissimi e (al contrario delle precedenti serate beethoveniane) pubblico assai numeroso.
Maurizio Modugno
Foto: Musacchio, Pasquailini, Fucilla / MUSA