BRUCKNER Sinfonia n. 8 in do minore Royal Concertgebouw Orchestra, direttore Manfred Honeck
Amsterdam, Het Concertgebouw, 21 giugno 2024
Scende a passi veloci dalla celebre scalinata del Concertgebouw Manfred Honeck e, dopo una pausa di raccoglimento e voluto silenzio, inizia il lungo viaggio di tormentata ricerca che caratterizza la penultima sinfonia di Anton Bruckner.
Il gesto, innanzitutto, è volutamente essenziale, orientato a mantenere l’unità delle lunghe frasi nelle singole sezioni e a sottolineare le dinamiche nonché le variazioni ritmiche preparate con massima attenzione alle pause e ai respiri dei fraseggi. Ampia libertà viene data all’orchestra olandese di dialogare tra le sezioni, trattate da Bruckner con quella singolare tecnica di giustapposizioni a blocchi poco amata a suo tempo e ora percepita come sua cifra caratteristica inequivocabile.
La visione che offre Honeck del compositore austriaco è senza dubbio poco incline a esaltare il misticismo cattolico del quale è stato nominato alfiere negli anni della sua lenta diffusione: vi è un timbro oscuro, teso, spesso sfuggente dai relativi momenti di serenità per ripiombare in un altrove memore d’un passato più lieto e ormai precluso. Esempio ne sono gli accordi sforzati finali, dei quali è costruito il loro apparire dopo un lento, circolare incedere, implacabile. Accordi che non hanno avuto nulla di liberatorio, bensì di tragico chinare il capo verso un oggi non voluto. Le stesse marce, memori di una lunga tradizione compositiva tipica viennese e asburgica, sono ridondanti ed ossessive, così come i ritmi popolareggianti che appaiono come echi in dissoluzione, mentre l’utilizzo delle brunite tube wagneriane dona un colore di nostalgica distanza alle frasi cantabili dell’Adagio.
L’Orchestra del Concertgebouw ha dato, ancora una volta, una prova superlativa delle proprie qualità: affascinanti gli ottoni, soprattutto negli attacchi in pianissimo di rarefatta bellezza, con corni e trombe esposti lungo tutta la sinfonia e di precisione nonché bellezza del suono che è raro ascoltare così raffinati. Ma impossibile stilare classifiche quando a sorreggerli sono degli archi dal sontuoso e impalpabile colore, compatti ma al contempo eleganti e leggeri. I fiati non mancano oltre che di eleganza nel porgere il suono anche di distinta pulizia timbrica e ritmica, così come i timpani, sempre a rischio di sopraffare in una pagina dove sono così impegnati, ma morbidi e ricchi nei loro interventi.
Il successo che il pubblico, nella sala dalla acustica impeccabile, con numerose chiamate e festosa accoglienza ha riservato a Manfred Honeck (chiamato nei giorni precedenti a sostituire Christian Thielemann, colpito da indisposizione) conferma il suo magistero artistico, volto ad analizzare le partiture non solo per quanto di tecnico possono offrire, ma nella loro dimensione interpretativa più alta, quella che cerca nell’umano il rapporto costante con la tensione dell’uomo a dare risposte circa il suo essere quotidiano.
Emanuele Amoroso