SCHNEIDER Marco Polo Giuseppe Talamo, Xiaotong Cao, Yunpeng Wang, Ying Liu, Haojiang Tian; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Muhai Tang regia Jingfu Shi scene e video Luke Halls costumi Emma Ryott
Genova, Teatro Carlo Felice, 29 settembre 2019
Per una singolare coincidenza, la messa in scena del titolo più originale proposto dal Carlo Felice nel 2019, l’opera cinese Marco Polo presentata in prima assoluta europea, si è sovrapposta al passaggio di testimone tra i Sovrintendenti, con Claudio Orazi che subentra a Maurizio Roi dopo quasi cinque anni di mandato. La guida di Roi ha portato tra l’altro a un miglioramento delle finanze del teatro e a una costante ricerca di consolidamento del botteghino, attraverso cartelloni (ovviamente condivisi col Direttore artistico Giuseppe Acquaviva, che rimane in carica) sempre più concentrati sul grande repertorio, ma anche mirati ad attrarre nuove fasce di pubblico includendo il musical e ora persino (suscitando pareri controversi) la commedia musicale: il prossimo titolo in programma sarà infatti Aggiungi un posto a tavola di Garinei-Giovannini-Trovaioli, mentre la «vera» stagione operistica inizierà ufficialmente il 22 novembre con Il trovatore. Questa attenzione verso gusti popolari è stata in parte controbilanciata dalla proposta di titoli meno consueti: nel 2018 il teatro ha battezzato infatti Miseria e Nobiltà di Marco Tutino e ospitato la prima italiana dell’opera kazaka Abai, e ora è stata la volta di questo Marco Polo, su libretto di Jin Wei e musica di Enjott Schneider, andato in scena all’Opera House di Guangzhou il 4 maggio 2018. Una proposta tra l’altro in sintonia con l’attualità, in un momento in cui tanto si parla di Nuova Via della seta e, purtroppo, anche di guerra dei dazi.
Si è trattato davvero di un’operazione in grande stile, preparata per settimane (compresa una sorta di duplice «prova generale» in forma di concerto al Dal Verme di Milano, il 22 e 24 settembre), a causa dell’imponente impianto scenico richiesto e della necessità di integrare le forze locali con elementi artistici cinesi (l’orchestrazione prevede l’uso di strumenti tradizionali accanto all’orchestra «occidentale») nonché di far assimilare al coro e ai cantanti italiani l’opera, proposta nella lingua originale. Si tratta in effetti di un lavoro ambizioso, che si estende per quasi tre ore lungo tre atti più un Prologo e un Epilogo, peraltro ambientati proprio a Genova, nelle carceri di Palazzo San Giorgio (dove Marco Polo rimase prigioniero per tre anni, probabilmente dettandovi il Milione a Rustichello da Pisa). Lavoro ambizioso anche nei temi toccati, che includono questioni «calde» come il commercio visto quale unione tra i popoli, le riforme e la pacificazione dei conflitti, l’incontro tra le culture: il protagonista viene infatti visto come vettore di un dialogo tra Oriente e Occidente, che cerca di interporsi nelle lotte ataviche tra dinastie e nazioni contrapposte ma anche di superare la visione mercantile «occidentale», veicolo di profitto e sfruttamento, incarnata invece dal padre e dallo zio di Marco. Non manca la storia d’amore interculturale tra il protagonista e Chuan Yun, della dinastia Song, che conosce avventurosamente a Samarcanda: un amore corrisposto ma impossibile, che si dipana per oltre dieci anni e termina col suicidio della fanciulla, che all’obbedienza al mandato di uccidere Marco preferisce la morte.
L’atto di Samarcanda in effetti, mettendo subito in scena una sontuosa festa con tanto di odalische, agguati, colpi di fulmine e vite risparmiate, lascia pensare che l’opera voglia adottare una dimensione kolossal; ma questa impostazione viene poi portata avanti solo in parte, da un libretto che ha il difetto di dipanare molti contenuti, ma lasciandoli come enunciati, senza approfondirli, siano essi atmosfere, ideali, amori, temi o personaggi; anche i dialoghi risultano poco lineari, prestando ovviamente fede alla correttezza della traduzione. Quanto al versante musicale, esso è stato affidato (con alcune integrazioni del cinese Shaosheng Li) al compositore tedesco Enjott Schneider, noto soprattutto per le musiche da film e per la tv, ma attivo in molti altri campi, particolarmente in quello della musica sacra. Anche in questo caso l’orizzonte è apparso un poco ibrido, muovendosi tra Prokofiev, Lloyd Webber e un orientalismo che sembrerebbe idiomatico e non superficiale: la partitura appare composta con perizia, ma senza grande forza drammatica, nonostante momenti assai fragorosi; tanto che gli episodi più efficaci sono sembrati gli interludi che fanno da transizione tra una scena e l’altra, come quello che evoca la battaglia navale di Yamen.
L’aspetto più riuscito dello spettacolo è apparso in realtà quello interpretativo. Senza termini di paragone non possiamo ovviamente dire molto della direzione di Muhai Tang: tuttavia non abbiamo avvertito grossi scollamenti tra buca e palcoscenico, e in uno spettacolo così complesso questo vale senz’altro come titolo di merito. Giuseppe Talamo è apparso credibile e musicalmente espressivo nel ruolo tenorile del protagonista, sostenendo valorosamente una vocalità che insiste sul passaggio di registro e sui primi acuti; difficile anche la parte dell’amata Chuan Yun, comprendente momenti melismatici che hanno messo in difficolta la voce di Xiaotong Cao, che tende nel registro acuto a farsi stridula e soffrire nell’intonazione. Tra gli altri il migliore è apparso Yunpeng Wang, compatta voce baritonale che ha reso giustizia a quello che forse assieme a Marco è il personaggio più sviluppato, il fiero generale Wen Tianxiang; buona anche la pasta e la resa drammatica del mezzosoprano Ying Liu (Liu Niang) e scenicamente quasi iconico il Kublai Khan del basso Haojiang Tian, mentre una lode particolare va tributata agli altri due interpreti italiani, Enrico Rinaldo e Davide Bartolucci, per lo sforzo aggiuntivo di imparare i ruoli in cinese. Un compito che deve essere stato arduo anche per il coro, massicciamente impiegato nell’opera: l’apporto del complesso genovese è stato di notevole impatto, così come l’orchestra ha fatto fronte validamente a una partitura che comunque richiedeva un notevole impegno. Efficace infine, nei limiti dell’ibridismo drammaturgico che abbiamo rilevato in precedenza, tutta la parte visiva dello spettacolo.
Roberto Brusotti