Festival Monteverdi di Cremona, edizione 2022
- 18 giugno, chiesa di S. Agostino: Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi,Orchestra e Coro Monteverdi Festival-Cremona Antiqua, Antonio Greco.
- 19 giugno, chiesa di S. Agostino: Master & Pupil (Ingegneri & Monteverdi), The Tallis Scholars, Peter Philips.
- 23 giugno, chiesa di S. Agostino: I fratelli Monteverdi; Divino Sospiro, Marco Mencoboni.
- 24 giugno teatro “Ponchielli”: Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, Accademia Bizantina, Ottavio Dantone.
- 25 giugno, cortile di palazzo “Fodri”: Around Monteverdi, I Bassifondi, Simone Vallerotonda.
Si è conclusa il 26 giugno con il concerto del controtenore Raffaele Pe e La Lira di Orfeo la nuova edizione del Monteverdi Festival di Cremona. Un ritorno alla normalità, dopo la cancellazione forzata di quella stagione – programmata per aprile-maggio 2020 – che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del tradizionale palinsesto cremonese dedicato alla musica rinascimentale e barocca (con nomi blasonati quali Gardiner, Christie, Antonini, Dantone, ecc.).
Grazie ad Andrea Cigni e ad Antonio Greco – rispettivamente sovrintendente-direttore artistico del Teatro “Ponchielli” e direttore principale del Monteverdi Festival – l’edizione 2022 ha ritrovato la propria ragion d’essere in un programma compòsito e variegato che, accanto ai tradizionali concerti (ben sette in cartellone), ha affiancato tre diversi target per i fruitori più esigenti: #Monteverdincursioni; #Monteverdinight; #Moteverdiclandestino. Noi abbiamo seguito per i lettori di MUSICA quattro concerti e un’incursione monteverdiana.
Il Vespro della Beata Vergine (1610) è stato un appuntamento ciclico all’interno delle varie edizioni del Festival che, a fasi alterne, ha sempre mostrato aspetti peculiari delle diverse prassi esecutive storicamente informate. Recuperato dall’abortito cartellone del 2020, il 18 giugno presso la chiesa di S. Agostino, Antonio Greco con l’Orchestra e il Coro Monteverdi Festival-Cremona Antiqua hanno dato vita a una versione meditativa del capolavoro monteverdiano. Lontano dalla “direttrice anglofona” di gardineriana memoria, la lettura di Greco va a inserirsi nel cosiddetto filone “mediterraneo” – per intenderci quello di Savall, Garrido, ecc. – puntando, non tanto sulla spettacolarità della scrittura, quanto sulla introspezione del dettato sacro. I tempi, mai estremamente mossi, uniti alla spazialità offerta dallo slancio policorale della partitura, hanno mostrato un’iridescente concertazione. Anche in virtù di certi espedienti acustici – perfettamente riuscita l’ambientazione dell’Inno Ave Maris Stella i cui ritornelli strumentali risuonavano dalle cappelle laterali di S. Agostino; o il Magnificat dal respiro antifonico-responsoriale – la lettura di Greco ha davvero convinto. La versione presentata – ripetuta il 20 giugno nella magnifica Basilica di S. Andrea in Mantova – si è avvalsa dei mottetti concertati in luogo delle antifone gregoriane inquadranti i canonici quattro salmi. Grande concorso di pubblico e standing ovation finale, dopo oltre 90 minuti di ininterrotta meraviglia poetico-musicale.
Il giorno successivo – sempre in S. Agostino – nonostante la calura africana e un programma per “addetti ai lavori”, grande concorso di pubblico per le dieci magnifiche voci che compongono la schola intitolata a Thomas Tallis. Musiche di Monteverdi e del suo maestro Marco Antonio Ingegneri; di Antonio Lotti – tra i successori di Monteverdi alla guida della Cappella di S. Marco a Venezia – e del “maestro dei maestri”: Giovanni Pierluigi da Palestrina. Le Lamentazioni del profeta Geremia di Palestrina e la Messa à quattro voci da cappella (1651) di Monteverdi – rispettivamente a chiusura delle due parti in cui è stato diviso il programma – sono state le composizioni sui cui si reggeva il resto del ricercato impaginato. Sebbene etichettato in patria come fautore del cosiddetto stile “Oxbridge” [Oxford+Cambridge], Peter Philips riesce a infondere ai Tallis Scholars la cifra caratteristica di un canto polifonico disteso in cui la chiarezza dell’idioma testuale si fonde perfettamente con l’intonazione generale. Pressocché esente da qualsivoglia pecca, l’intonazione del coro è dolce, essendo lontano dalle asprezze che spesso le voci femminili – depauperate dal tradizionale appoggio al vibrato e conseguentemente carenti di armonici – mostrano in contesti ridotti a parti reali. L’amalgama vocale è stupefacente per l’equilibrio che si viene a creare. Manco a dirlo, la specializzazione nel repertorio palestriniano è palese, in virtù della straordinaria esemplificazione pratica del ductus vocale del prenestino. Il Crucifixus (1717) di Lotti, brano di rara bellezza espressiva, connotato da tutti i tòpoi affettivi ereditati della monteverdiana “seconda prattica” – ma già pienamente barocco per il trattamento dell’armonia – ha preludiato in funzione della compostissima Messa polifonica a quattro voci del “divin Claudio cremonese”, ultima propaggine di quella tradizione franco-fiamminga protrattasi fino a Rinascimento compiuto. Che meraviglia la sobria, misurata, chiara, intelligibile ed espressiva lezione fornita dai Tallis Scholars. Interminabili applausi da parte di un pubblico riconoscente e sanato nello spirito da ciò che i romantici chiamavano, semplicemente, il Sublime.
La settimana seguente è continuata in S. Agostino con l’ensemble Divino sospiro, diretto da Marco Mencoboni (23 giugno). Piatto forte della serata alcune delle pagine più preziose – d’Annunzio le avrebbe definite a ragione faville del maglio – del vocabolario monteverdiano. La Selva morale e spirituale è infatti il testamento musicale della maturità compositiva di Claudio Monteverdi, dato alle stampe a Venezia tra il 1640 e il 1641. Mencoboni ha congegnato un programma esemplare in cui, accanto a brani strumentali per archi e continuo di Tarquinio Merula e Dario Castello, si stagliavano le composizioni vocali dei fratelli Giulio Cesare e Claudio. I mottetti, concertati o polifonici, di Giulio Cesare sono di pregevole fattura, ma le gemme di Claudio a confronto brillano – se possibile – ancor di più. I madrigali spirituali della Selva – cinque in tutto con ben due intonazioni dal Canzoniere petrarchesco – sono la summa poetica della teoria degli affetti che Monteverdi ha praticato lungo una vita intensa e ricca di scoperte drammaturgiche folgoranti. Improntati alla vanitas – la caducità della vita – i carmi grondano, in maniera sopraffina, di voluptas dolendi. I sei madrigalisti (Giulia Bolcato, Teresa Duarte, Candida Guida, Massimo Altieri, Riccardo Pisani e Hugo Oliliveira), pendenti dalle labbra di Mencoboni – dispensatore attento dei più profondi segreti della concertazione – hanno deliziato gli astanti compiendo il miracolo della “transustanziazione” della parola in musica. Voci splendide e molto duttili, perfette nell’equilibrio d’insieme, parimenti gli strumentisti. Particolare menzione meritano Mencoboni e Nicola Lamon per la maniera “espressiva” di trattare il basso continuo. Concerto davvero memorabile, non premiato sufficientemente dall’affluenza di pubblico, cospicuo sì, ma non strabordante.
La sera appresso, un’altra delle folgoranti scoperte drammaturgiche monteverdiane – Il ritorno di Ulisse in patria, nella nuova edizione critica curata dal musicologo senese Bernardo Ticci – concertata e diretta al cembalo da quel gigante dell’opera barocca, che risponde al nome di Ottavio Dantone. In realtà il festival si è aperto il 17 giugno con questo capolavoro, ma noi abbiamo assistito alla recita del 24 giugno. La regia di Luigi De Angelis vedeva il teatro “Ponchielli” come la reggia di Penelope e Ulisse, così che i vari personaggi dell’azione andavano e venivano per approdare o fuggire dalla scena. Una scena minimale in cui i video e le immagini venivano proiettate sopra un sipario inesistente, fatto di giochi di luci e simbolici oggetti di scena. L’ambientazione moderna-contemporanea – se vogliamo popular – della vicenda coinvolgeva direttamente il pubblico, poiché i cantanti si muovevano tra di esso con gran disinvoltura, passando dalla platea ai palchi, per raggiungere poi il palcoscenico. Rendere parte attiva dell’azione gli ascoltatori è un espediente drammaturgico sicuramente efficace – le oleografiche regie di Ponnelle oggi sarebbero davvero anacronistiche e inattuabili – ma la vera drammaturgia musicale la imprime il concertatore. E Dantone è un maestro in quest’arte, a partire dal trattamento della sua Accademia Bizantina, che non è una semplice compagine strumentale, ma un personaggio vero e proprio alla stregua dei cantanti-attori. Non accompagna soltanto, ma tinge le diverse texture sonore assecondando lo svolgersi degli accadimenti, è un organismo mimetico e pulsante, vivido e in osmosi con i personaggi della tragedia di Badoaro-Monteverdi. I cantanti sono stati molto versatili nella recitazione, sostenuti dallo spumeggiante cembalo di Dantone. Tra le diverse voci maschili la più convincente è stata quella di Mauro Borgioni, un Ulisse molto ben delineato e naturale, con timbro corposo e recitazione intelligibile. Seguito dal riflessivo e agile Telemaco di Anicio Zorzi Giustiniani. Particolare menzione merita il deliziosissimo duo Eurimaco-Melanto, alias Alessio Tosi-Gaia Petrone – capacità attoriali ottime – sostenuti da beltà vocale e dizione perfetta. La Penelope di Delphine Galou è risultata assai convincente per immedesimazione, sostenuta dalla bellezza del proprio colore vocale. In realtà i cantanti sono stati tutti impeccabili e sarebbe lungo menzionarli tutti, però mi sia consentita un’ultima riflessione. Il cast della presente messinscena ha brillato, sicuramente per padronanza vocale e gestione del non facile stile musicale adottato da Monteverdi, ma soprattutto per l’attenzione riservata al testo, alla dizione, al trattamento prosodico, requisiti fondamentali per dare vita e credibilità a un tipo di teatro che si regge – allora come oggi – sulla parola. I tre atti dell’opera sono stati realizzati in due parti da 80 minuti l’una, inframezzati da un intervallo di 20 minuti, senza nulla togliere all’integrità del titolo. Il grande plauso del nutrito pubblico ha sottolineato a dovere l’unicità dell’evento.
Per la costola del Festival – #Monteverdincursioni – abbiamo ascoltato I Bassifondi, coordinati dal liutista Simone Vallerotonda, durante il concerto pomeridiano del 25 giugno dal titolo Around Monteverdi. In realtà, I Bassifondi hanno fatto a loro volta incursione in un’altra propaggine del Festival, #Moteverdiclandestino. Infatti, durante le serate del 24 e del 25 giugno a notte inoltrata, hanno accompagnato i Tableaux Vivants dall’opera di Caravaggio – presso il Museo Civico “Ala Ponzone” – suonando il programma Sonar stromenti e figurar la musica. I Bassifondi sono un trio di strumentisti a plettro – tiorba, chitarra battente, liuto, colascione e percussioni – composto dal leader Simone Vallerotonda, da Stefano Todarello e Gabriele Miracle. Partendo da un repertorio a stampa di intavolature del ‘600 – costituito essenzialmente da danze e variazioni su basso ostinato – integrano, modificano e rielaborano – con proprietà stilistiche – la musica cortese attualizzandola e facendola conoscere al più largo pubblico possibile. Infatti, questo ricercato repertorio, sebbene non più negletto come un tempo, rischia ancora oggi di essere recepito come qualcosa di lontano, inattuale. Non è musica da museo e gli strumenti non sono reperti archeologici, questo è il messaggio sapientemente tradotto in pratica viva dal polistrumentista Simone Vallerotonda. Un musicista còlto, sensibile, che sa trasmettere tutta la sua passione per gli strumenti a pizzico rinascimentali e barocchi, attraverso una padronanza tecnica invidiabile, ma sempre al servizio della musica. Foscarini, Piccinni, Corbetta, Calvi, Asioli, Carbonchi sono gli autori che hanno risuonato a palazzo “Fodri” per un pubblico molto coinvolto, anche grazie all’intesa e alla complicità di tre formidabili artisti.
Michele Bosio