DONIZETTI La fille du régiment N. Petrinsky, A. Noguera, J. Osborn, M.G. Schiavo, M. Laurito, G. Andreiux, D. D’Ostuni, M. Ferrara, F. Vazzola; Coro e Orchestra del Teatro La Fenice, direttore Stefano Ranzani regia e scene e costumi Barbe & Doucet light design Guy Simard
Venezia, Teatro La Fenice, 14 ottobre 2022
A chiusura della Stagione Lirica 2021-2022 il Teatro La Fenice mette in scena la Fille du régiment di Gaetano Donizetti. Un lavoro francese del maestro di Bergamo che debuttò all’Opéra-Comique di Parigi nel febbraio del 1840 (nell’ottobre di quell’anno sarebbe stata rappresentata al Teatro alla Scala nella traduzione italiana di Callisto Bassi).
Il poeta Heinrich Heine, commentando la vita musicale parigina, scriveva con non celata vena polemica: “Questo italiano ha molto talento, ma ancora più notevole è la sua fertilità, in cui è superato solo dai conigli”. Tra il 1839 e il 41 Donizetti scrisse, infatti, 6 delle sue 73 opere, con quella rapidità che spesso è stata oggetto di strali. Il compositore stesso ne era consapevole: “Ciò che ho fatto bene, l’ho sempre fatto in fretta; e spesso mi è stata rimproverata proprio la disattenzione che mi è costata più tempo”. Non è esente da questa “fretta” anche la Fille, che sembra sia stata scritta in poche settimane. Ciononostante l’opera fu accolta calorosamente: nel solo primo primo anno fu rappresentata 50 volte a Parigi e successivamente nei maggiori teatri di Francia. Non mancò di ricevere anche critiche feroci. Berlioz tra i primi: le sue recensioni furono violente e offensive. Certo, l’opera è una commedia leggera e vive di ruoli stereotipati, offrendo facilmente un bersaglio d’attacco critico. Berlioz scrisse sul “Journal des Débats”: “Il signor Donizetti sembra volerci trattare come un paese conquistato, è una vera guerra di invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti!”. Il critico inglese Henry Chorley, che colse nel segno a proposito dello spirito del lavoro donizettiano, scrisse della Figlia del reggimento: “La musica è di un’allegria spensierata che rasenta l’esuberanza, di una franchezza genuinamente militare ma mai volgare. È leggera, è facilmente familiare, è orecchiabile, è tutto ciò che i pedanti amano condannare”. Divenne ben presto in Francia un’opera di bandiera: assieme alla Marsigliese e ai fuochi d’artificio, faceva quasi parte della festa nazionale e il “Salut à la France”, intonato da Marie nel secondo atto, diventò durante il Secondo Impero quasi un inno nazionale non ufficiale.
Il lavoro, si sa, è un opéra-comique, prevede cioè dialoghi parlati alternati a numeri musicali, e richiede la presenza di interpreti capaci non solo di assecondare le richieste musicali della partitura, ma di saper recitare i vivaci dialoghi in maniera credibile. Il lavoro è poi una sorta di fuoco d’artificio per le voci dei due interpreti principali: il ruolo femminile di Marie richiede una voce agile e brillante con una straordinaria personalità teatrale e il protagonista maschile dev’essere in grado di sostenere quel tour de force tenorile che è la celebre aria dei 9 do acuti “Ah! mes amis”.
La trama dell’opera è esile, ma collaudata nel rappresentare l’incompatibilità tra i sentimenti veri dei personaggi e i sentimenti imposti dai doveri sociali. Marie, la giovane “fille” del reggimento, cresciuta dai soldati come una figlia dopo la morte del padre, il capitano Roberto, è un personaggio unico nella storia dell’opera, che unisce una certa rudezza militaresca, molto inusuale per un personaggio femminile, a un’innata eleganza, essendo, senza saperlo, figlia nobile della Marquise de Berkenfield. Quando l’uomo dei suoi sogni, il tirolese “giovin innamorato” Tonio, sarà sospettato come spia che si oppone all’occupante francese, Marie dovrà superare la guerra, la contrarietà dei suoi molti ‘padri’ e perfino la scoperta di essere nata nobile per realizzare il suo personale lieto fine.
A Venezia la messinscena è stata affidata alla coppia di registi, costumisti e scenografi André Barbe & Renaud Doucet, che si sono trovati davanti ad un bivio: offrire una rappresentazione tradizionale o ripensarne completamente la drammaturgia e l’ambientazione. Hanno deciso di… non scegliere, mescolando le due possibili visioni, strizzando l’occhio a quanti si aspettavano una visione nuova del lavoro donizettiano e assecondando il pubblico più tradizionalista che vi si è riconosciuto.
L’idea di fondo è quella di leggere il melodramma come un lavoro sulla memoria della guerra: durante l’ouverture viene proiettato un toccante filmato girato in bianco e nero con protagonista la nonna novantanovenne di André Barbe, che in casa di riposo riceve la visita di figli e nipoti. Un incontro malinconico, inframezzato dai ricordi di guerra che gli oggetti e le persone sollecitano nell’anziana, un tempo infermiera sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale. All’apertura di sipario ci si trova davanti alla riproduzione ingigantita degli oggetti presenti nella stanza dell’anziana (un quadro, dei medicinali, un carillon, una penna…). L’impatto iniziale, nel passaggio dal malinconico bianco e nero del filmato e i colori sgargianti della scena e dei costumi, è scioccante nel trovarsi catapultati in una sorta di coloratissimo disneyland, nel quale gli oggetti sembrano prendere vita. Alla lunga, però, tutto diventa un po’ stucchevole e kitsch e l’idea iniziale viene ripresa, come forzatamente, nel finale nel quale entrano in scena gli ospiti della casa di riposto e ricompare l’immagine dell’anziana che chiude gli occhi, cessando di vivere. La guerra, che aveva segnato la vita della donna, in realtà nel melodramma donizettiano è poco più che un pretesto, quasi un gioco festoso e un po’ fracassone che fa da contorno alla vicenda amorosa. Niente di più lontano, pertanto, dall’idea registica.
Passando dalla scena alle parti vocali le cose si fanno più positive. Spicca la professionalità e la sicurezza tenorile dell’americano John Osborn, uno dei massimi tenori oggi in circolazione nel repertorio rossiniano e belcantista del primo Ottocento italiano e francese, capace di risvegliare i fasti del contraltino autentico e del più alto stile eroico grazie alla chiarezza del timbro e alla nobiltà del fraseggio. La sua interpretazione di Tonio, che ricordava per molti aspetti l’ingenuità svagata di Nemorino, ha convito per la facilità vocale e l’attenzione alla parola. Qualche limite si è avvertito negli acuti della sua celebre aria: vi si percepiva una certa fatica, la stessa che gli ha suggerito di evitare il bis altre volte concesso. Magnifica invece l’aria del secondo atto “Pour me rapprocher de Marie”, cantata con un fraseggio impeccabile e grande musicalità, mostrato eleganti crescendo e diminuendo che hanno reso il suo canto pieno di dolcezza. Il perfetto controllo del fiato e la flessibilità vocale gli hanno permesso di mostrare una grande varietà di dinamiche in tutta la sua ampissima estensione.
Nel ruolo protagonistico Maria Grazia Schiavo ha dato fondo a tutte le sue risorse di cantante e d’attrice: il ruolo è vocalmente molto impegnativo per l’alternanza di momenti di brillante virtuosismo e insistiti sopracuti con altri di malinconico ripiegamento. La voce del soprano napoletano è di non grande caratura, ma risulta penetrante e di bell’impatto. Le doti di attrice, vivacissima e credibile, pur nelle discutibili scelte registiche, hanno completato una prova di ottimo livello.
Davvero eccellente il Sulpice di Armando Noguera, baritono argentino che dimostra una sorprendente maturità vocale e attoriale. Voce brillante e di bellissimo timbro, caratterista eccezionale, capace di catalizzare l’attenzione del pubblico in un ruolo che pure non è protagonistico, anche in virtù di una notevole disinvoltura scenica e del dominio della lingua francese.
Natasha Petrinsky mostra una voce scura, quasi da contralto, e veste con efficacia – più scenica che vocale – la parte della Marchesa de Berkenfiled. Insolito cameo la simpatica presenza di Marisa Laurito nel ruolo parlato della Diuchesse de Crakentorp, che si ritaglia un momento da avanspettacolo cantando “Arrivano i nostri”. Ottimi tutti gli altri e una menzione particolare per il coro della Fenice che, oltre a cantare al meglio, mostra in ogni suo elemento una coinvolgente partecipazione scenica.
La bacchetta sicura e professionale di Stefano Ranzani garantisce una resa orchestrale e un affiatamento con il palcoscenico degni della grande tradizione italiana dei maestri concertatori, capace di dare il giusto risalto agli accompagnamenti strumentali e al contempo il perfetto sostegno ai cantanti.
Nel complesso ottima conclusione di stagione in attesa della riapertura a novembre con Falstaff.
Stefano Pagliantini
Foto: Michele Crosera