ROSSINI Guillaume TellM. Pertusi, D. Korchak, N. Di Pierro, E. Stavinsky, C. Trottmann, L. Tittoto, B. Á. Martinez, D. Monaco, P. Grant, S. Jicia, G. Chauvet, H. Li; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Mariotti regia Chiara Muti scene Alessandro Camera costumi Ursula Patzak
Milano, Teatro alla Scala, 20 marzo 2024
Era il 7 dicembre 1988 quando per l’ultima volta si diede alla Scala l’estremo capolavoro operistico di Rossini. Riccardo Muti sul podio, Luca Ronconi per la regia (assai discussa) e un cast che vedeva, tra gli altri, Chris Merrit, Giorgio Zancanaro e Cheryl Studer. La scelta, tradizionalissima, era caduta sulla versione italiana, mai essendosi rappresentata a Milano la versione originale in lingua francese su libretto di Étienne de Jouy e Hippolyte Louis-Florent Bis. Ecco finalmente che anche il massimo teatro d’opera italiano accoglie ora la sfida e porta in scena il capolavoro rossiniano nella sua forma originaria, quella in assoluto più compiuta per la straordinaria compenetrazione tra prosodia (e suono) della lingua francese e il dettato musicale. Se allora era il Maestro a guidare orchestra coro e cantanti, ora è un’altra Muti, la figlia Cristina, a dirigere quanto si è potuto vedere sul palcoscenico del Piermarini.
E, diciamolo subito, non è stato un bel vedere. Come aveva annunciato in conferenza stampa e descritto diffusamente nel libretto di sala, la sua idea registica trova ispirazione in Metropolis di Fritz Lang, il film culto del 1927 che profetizzava l’annichilamento della società e l’umanità automatizzata ed asservita al profitto. Da qui l’impianto scenico di Alessandro Camera che rappresenta palazzi ischeletriti e cupi in un’atmosfera buia e costantemente nebbiosa. Non c’è spazio, nella visione di Muti, per i riferimenti naturalistici, per le valli, i fiumi, i villaggi montani che tanta parte hanno nel lavoro rossiniano. Non solo nella storia narrata, ma ancor più nella pittura sonora che Rossini ne fa, nell’intreccio tra Natura e Libertà, tema quanto mai vicino alla nascente estetica romantica.
Manca anche quell’impeto patriottico così presente nel libretto di Schiller e nella figura di Guglielmo Tell, soffocato in questa visione in cui domina la soggiogante spietatezza del potere, che ottunde qualsiasi volontà di riscatto e costringe l’uomo a prostrarsi e ad affidarsi ad illusori strumenti di riscatto (i bruttissimi tablet, di cui ogni personaggio è dotato, alludono a questo). “Automi deambulanti in un illeggibile e dissennato scorrere del tempo”, li definisce Chiara Muti.
In questa visione soffocante il male è personificato dalla figura spietata di Gessler, non più governatore al servizio degli Asburgo, ma raffigurazione del demonio. Abbigliato con cappuccio e mantella rossa e addirittura circondato nel balletto del terzo atto da uno stuolo di donne, improbabili personificazioni dei sette vizi capitali – in realtà più sciantose da Folies Bergères dalle movenze da postribolo – il cattivo Gesler assume tratti mefistofelici che nella loro esagerazione lo rendono quasi macchiettistico. V’è anche spazio, in questa visione “biblica”, per l’antico albero della conoscenza che si erge nel terzo atto tra gli onnipresenti edifici squadrati e asettici: perduto ogni riferimento naturalistico, nella visione di Muti, esso simboleggia la natura oltraggiata dall’uomo e ostile. Assistiamo anche allo stupro, nel primo atto, delle tre spose e – udite udite – anche all’apparizione di Cristo nella figura del vecchio Melchtal che, già morto, viene crocifisso in scena.
Nemmeno l’incredibile finale rossiniano, con il ristabilirsi degli equilibri e il trionfo del rasserenato paesaggio sonoro in do maggiore e la liberazione del popolo svizzero grazie al suo eroe, Guglielmo Tell, lascia spazio per una visione luminosa e proiettata verso il futuro, se non per una opaca rappresentazione naturalistica che si intravede sullo sfondo.
Che queste scelte, per quanto portate con coerenza alle estreme conseguenze, non deponessero a favore della regia si era capito già dopo il primo intervallo, quando una voce dal loggione aveva invitato il direttore a proseguire in forma di concerto. Il clima è diventato via via più rovente quando i ballabili del terzo atto sono stati sonoramente (e meritatamente) buati – francamente brutte le coreografie di Silvia Giordano. Alla fine dello spettacolo Chiara Muti non ha potuto che ricevere un sonoro dissenso, peraltro accolto con grande e civile rispetto.
Sul fronte musicale, invece, va registrato il pieno successo. Di fronte alla soggiogante bellezza della musica di Rossini, Michele Mariotti ha dimostrato una maturità di interprete e una comprensione del dettato musicale rossiniano che pochi hanno. Ha improntato la sua direzione alla più grande flessibilità di fraseggio, alla ricerca continua di morbidezze e di colori continuamente cangianti, dal calore dei momenti più arroventati – sentire la chiusa della magnifica sinfonia – alla pittura sonora delle grandi scene di natura alla perfetta tenuta degli insiemi. Il pubblico gli ha tributato il successo più caloroso, condiviso con il magnifico coro scaligero diretto da Alberto Malazzi.
Il cast dei solisti, purtroppo abbandonati dalla regia all’iniziativa personale, era ben assortito. Michele Pertusi è stato il vero mattatore della serata, tenendo in pugno il personaggio sia dal punto di vista della credibilità scenica – e non era facile in tale contesto – sia soprattutto per la tenuta vocale e l’immedesimazione. La sua voce di vero basso si è piegata alle esigenze baritonali di Tell in modo sorprendente, rivelando invidiabile duttilità, calore e morbidezza. Ne è uscito un ritratto umano toccante che ha trovato il suo apice nel celebre arioso “Sois immobile”. Accanto a lui Dmitri Korchak ha affrontato il difficile ruolo di Arnold con sicurezza e baldanza eroica, venendo a capo di una parte asperrima risolta sempre nel canto senza inutili esibizioni. Nella sua interpretazione si sono ascolti sia l’eroe romantico, vibrante e impetuoso, ma anche l’innamorato e il figlio, questi ultimi risolti con raffinate mezzevoci, con carezzevoli abbandoni di derivazione belcantistica.
Meno a fuoco la prova del soprano Salome Jicia nella parte di Mathilde: il timbro un po’ opaco e una dizione non particolarmente pregante le consentono di ritrarre un personaggio efficace ma non memorabile e anche la sua aria “Sombre forêt”, per quanto ben cesellata, era troppo adagiata ed austera. Un peccato non aver potuto ascoltare Marina Rebeka, inizialmente prevista per questa parte.
Catherine Trottmann era Jemmy, figlio di Guillaume, efficace scenicamente ma con qualche limite di estensione che tuttavia risolve con una buona caratterizzazione giovanile del personaggio. Da ricordare anche Géraldine Chauvet come Hedwige, moglie di Guillaume. Luca Tittoto era perfetto nella parte quasi protagonistica – per come la regista l’ha pensata – di Gessler: un demonio-dittatore che si esprime con voce ferma e stentorea e con atteggiamenti sferzanti.
Da ricordare, infine, gli altri: Dave Monaco come pescatore, Evgeny Stavinky nei panni del vecchio Melchtal, Nahuel Di Pierro come Walter Fürst, Paul Grant come Leuthold e Huanhong Li nel ruolo di un cacciatore.
Stefano Pagliantini