PUCCINI La rondine C. López Moreno/O. Peretyatko, M. Ruta/V. Farcas, O. Cosimo/M. Rojas, M. Ciaponi/S. Ballerini, V. Stoyanov, M. Mollica, P. Żak, R. Lia, A. Hois, I. Bogdanova, K. Chubunova, P. Trivero/C. Borruso, L. Della Monica; Orchestra e Coro Teatro Regio Torino, direttore Francesco Lanzillotta regia, scene e costumi Pierre-Emmanuel Rousseau
Torino, Teatro Regio, 21 e 26 novembre 2023
La rondine è finalmente tornata a Torino, dove fino ad oggi era stata vista in scena soltanto due volte (con l’aggiunta di tre esecuzioni in sede radiofonica). Vi era arrivata celermente, quarta città italiana nello stesso anno del debutto a Monte Carlo, nel 1917, per poi fermarsi fino al 1994, quando il Regio la ripropose in chiave di parziale “novità assoluta”, presentandone la terza versione con le parti perdute riorchestrate da Lorenzo Ferrero (un tentativo di recupero era già stato fatto negli anni precedenti, ma con un “innesto” dello spartito per canto e pianoforte). Fu quello il punto d’arrivo di un dibattito che aveva accompagnato un ritorno d’attenzione intorno a quest’opera, animato in prima linea dal critico Alfredo Mandelli, con pugnace passione. Sgombrato il campo dalle argomentazioni di una sottovalutazione ormai datata, all’epoca si era aperto lo spazio per andare a fondo nello studio delle varianti che Puccini aveva apportato alla partitura (in particolare al terzo atto) sperando di dare un futuro migliore a un lavoro che amava. La questione è intricata e presenta interrogativi rimasti senza risposta. Limitandoci a sottolinearne l’aspetto drammaturgico, peraltro centrale, si può ricordare che il nodo verteva sulla conclusione da dare all’illusione amorosa che la mantenuta Magda costruisce per soddisfare una fantasia, a spese di Ruggero, sprovveduto provincialotto, in fin dei conti usato con spregiudicata leggerezza. Il quale nella terza versione (1921), falsamente informato da una lettera anonima di essere tradito da Magda, l’abbandona senza sentire ragioni, mentre nella prima (e, con modalità diverse, nella seconda del 1920) lo scioglimento è imposto dalla donna, consapevole di non volere (né dovere) portare avanti un legame che nel suo caso non poggia su un sentimento reale e profondo. “Io riprendo il mio volo e la mia pena” sono, in tutti i finali, le ultime parole di Magda, la rondine, sulla cui decisione (dolorosa?) incide la consuetudine non facilmente rinunciabile con un mondo in cui l’amore è futile gioco, ma garantito da un portafoglio sempre pieno e da magnifici giri di perle. Puccini (e anche Adami, il librettista che ebbe il suo da fare per corrispondere alle sue incertezze) ce lo dice chiaramente e con impareggiabile finezza, dando anima e vita a un quadro sociale e d’ambiente realizzato con un continuo mescolarsi di ironia, cinismo, nostalgia, amarezza e una sottigliezza psicologica meno esile di ciò che spesso si dice, che tocca tutti i personaggi, persino Ruggero al quale, per renderlo “meno stupido” (sic scripsit), assegnò nella seconda versione l’aria “Parigi! è la città dei desideri”, senza faticare troppo, riadattando una romanza (“Morire!”) composta per un album d’occasione a più autori. Premura inutile, il giovanotto non aveva necessità di definirsi meglio. Ma quale versione preferire? Al tempo del citato dibattito si sostennero molto le ragioni dell’ultima, prosciugata nell’elemento sentimentale, con maggiore evidenza data al ricatto del denaro e quindi più cruda (chissà perché poi, visto che in questa, a differenza delle altre, non ci sono segni espliciti che Magda voglia cedervi). Nei tentativi di recupero fatti, il risultato non convinse. È vero, c’era il dato oggettivo che l’autore aveva sentito il bisogno di crearla. Ma a contrastarlo stanno varie lettere in cui Puccini, soddisfattissimo dell’esecuzione di Monte Carlo (con Gino Marinuzzi), va giù pesante con quella di “piombo” di Ettore Panizza a Bologna (“prima italiana”) e di Leopoldo Mugnone a Milano (“vaccamente enfatico” nel terzo atto). Dunque un problema di sensibilità interpretativa, di trovare un direttore capace di aderire allo spirito di un’opera molto diversa dalle solite sue, senza forzarla ad essere ciò che non era? È solo una delle considerazioni di Michele Girardi, che nel suo accuratissimo studio su quest’opera (rivisto in forma sintetica per il programma di sala della presente edizione) scrive che “per la prima volta un ripensamento di Puccini ci appare un peggioramento rispetto all’originale”. Una conclusione che è difficile non condividere. Superata la fase degli esperimenti sull’edizione 1921, La rondine che si ascolta abitualmente è solo quella originale. La leggerezza egocentrica e l’irrealistico anelito di Magda si perdonano facilmente, li accettiamo per la sua determinazione di donna comunque libera, nel bene e nel male. Nessuna epoca è meno romantica e più volatile e scettica della nostra, in cui tutto si brucia in un giorno. Anche per questo La rondine ci appare sempre più moderna ma al tempo stesso non stupisce che ancora oggi parte del pubblico possa trovarsi disorientato di fonte a un lavoro in cui Puccini – citando ancora Girardi – “lasciandosi alle spalle il mondo dei buoni sentimenti, ha adottato nuove strategie narrative, altrettanti passi verso la riformulazione della propria poetica”. Eppure, nonostante un terzo atto che continua a scontare il suo controverso vissuto, non è più solo una gemma per musicologi, la si può riconoscere anche come un’idea teatrale che arriva al cervello e al cuore, senza necessità di tirar fuori il fazzoletto.
Esecutivamente parlando, opera difficilissima. De Sabata, che la ripropose a Monte Carlo nel 1919, la definì la più elegante e raffinata delle opere di Puccini, il quale, a sua volta, con tre parole indicò fulmineamente ciò che richiedeva per poter essere compresa: finesse, nuance, souplesse. La lezione è stata colta egregiamente da Francesco Lanzillotta, che ha offerto in ogni momento un suono vaporoso e una flessibilità di sfumature dinamiche ammirevoli. Una partitura che respira sull’onda della danza, come questa, richiede un controllo dell’agogica perfetto, con tutto ciò che ne consegue in termini di stacchi di tempo, rubati, ritenuti, pause e così via. Puccini prescrive ogni cosa, ma poi occorre trovarne la definizione opportuna calibrandola in un quadro d’insieme. La rondine è quanto mai sfuggente ed ecletticamente costruita, gli imperanti valzer si frantumano di continuo, ballabili novecenteschi spuntano a sorpresa per svanire non meno rapidi, gli involi melodici “arieggianti” si intrecciano con il canto di conversazione (a tratti con il ricorso al parlato, con un effetto straniante a dir poco geniale) oppure diventano al centro del secondo atto il motore di un gigantesco, strepitoso concertato, dal crescente, irresistibile afflato. Tenere insieme tutto questo con la souplesse che voleva Puccini, equilibrare melos, ironia, nostalgia ma sempre con mano leggera, senza enfasi, caricatura, struggimento è stato ciò di cui Lanzillotta è stato capace, dimostrando maturità di concertatore e riuscendo a ottenere il massimo dall’eccellente orchestra e dal non meno disciplinato coro diretto da Ulisse Trabacchin, nonché da due compagnie piuttosto eterogenee, dove quasi tutti erano al debutto nei ruoli. Il caso ha voluto che uno sciopero assegnasse la première al secondo cast, rivelatosi poi il più interessante. Di rivelazione si può parlare a proposito di Carolina López Moreno, già segnalatasi di recente su qualche scena italiana. Oltre all’eleganza della figura, ha tutta la freschezza di un soprano lirico giovane, né le difetta la robustezza e l’empito per essere autorevole nelle pagine più tese, senza forzare i registri (la fermezza d’accento drammatico trovata nell’epilogo e la forza di penetrazione dei tre Do acuti del concertato non hanno lasciato indifferenti). Dunque, sul piano musicale, una Magda dalla linea impeccabile, capace di prodursi in pianissimi da manuale, nelle messe di voce, nella tenuta delle note (la purezza del La bemolle con cui Magda si congeda) e persino in zona acuta (il Do della “Canzone di Doretta”, dolce e lieve). Al momento – ma sembra un limite facilmente superabile – il suo è un personaggio soprattutto risolto nel canto, che, specie in un’opera come questa, potrebbe completarsi molto lavorando con maggior fantasia sulla parola. Che è ciò su cui ha fatto leva, sia pure in modo talora manierato, Olga Peretyatko, con il supporto di una padronanza scenica da attrice di classe, molto efficace nel contrasto fra un disinvolto portamento da gran dama ed atteggiamenti più ordinari, plausibili in una mantenuta. Sotto diverso profilo, il suo strumento, pur sempre affascinante per corposità e colore, è parso appesantito e gutturale, costretto a privilegiare le emissioni a voce piena o mezzoforte, limitando molto le sfumature in piano che sono essenziali nella costruzione vocale del ruolo. Il suo Ruggero, Mario Rojas, si è speso con spontaneità ma non si è distinto per quadratura musicale e ha faticato a corrisponderle adeguatamente nei momenti a due. Viceversa, si è fatto apprezzare Oreste Cosimo, scenicamente credibile e vocalmente sicuro e affidabile, anche se incline a sfogare il canto con troppa uniformità. Con un fraseggio più vario avrebbe potuto forse trarre qualcosa di più dall’aria “Parigi!”, che peraltro con la sua forma chiusa fa a pugni con la straordinaria fluidità del primo atto (perché non ometterla, se si fa la prima versione, dove non c’era? Puccini stesso, nella terza, non l’aveva conservata…).
La coppia “comica”, se così si può chiamarla, Lisette/Prunier, è stata servita al meglio da Marilena Ruta e Marco Ciaponi: la prima, più che altro con una recitazione pepata, pungente e spiritosa, il secondo per il garbo e la delicata autoironia con la quale ha delineato in modo sfaccettato il suo personaggio, indossando goffamente la maschera del Grande Poeta (lo stereotipo dannunziano che Puccini e Adami volevano ridicolizzare) e facendone emergere in modo amabile le debolezze e l’umanità. Più convenzionali e comunque adeguati gli interpreti alternativi, Valentina Farcas e Santiago Ballerini. Sempre con riferimento a Prunier, peccato che nessuno degli interpreti abbia tentato il Do acuto in falsetto che chiude il duettino del terzo atto: non una gratuita prodezza, ma una finezza alla quale peraltro Puccini, con saggia prudenza, concesse l’opzionalità. Quella di Rambaldo, il ricco e maturo amante di Magda, è, oggettivamente, una parte “piccola”, che però trova il suo significato nella sua vigile presenza agli accadimenti. Ha esperienza di quel mondo e conosce l’animo femminile, a cominciare da quello di Magda. Non ha bisogno di parlare molto, può farlo anche per interposta persona, come accade nell’ultimo atto, quando incarica Prunier di dirle che lui l’attende, per “salvarla” (in cuor suo, sa che avrà partita vinta). Un carattere che può trovare vita solo attraverso un artista di rango come Vladimir Stoyanov, che l’ha incarnato con l’assertività e la presenza di spirito di chi è capace di governare ogni situazione senza trascendere, da vero “uomo pratico”. Anche in questa occasione gli artisti del Regio Ensemble si sono rivelati preziosissimi: le affiatatissime Amélie Hois, Irina Bogdanova, Ksenia Chubunova (come amiche di Magda e poi grisettes), con Rocco Lia (Crébillon e maggiordomo) e Pawel Żak (Gobin e Adolfo). Altrettanto può dirsi per Matteo Mollica (Périchaud e Rabonnier) e Pierina Trivero e Caterina Borruso, che si sono alternate nella breve “arietta” che invita a diffidare dell’amore e che dovrebbe giungere dalla strada, mentre in questo caso è eseguita su una terrazza alta del Bal Bullier. L’effetto non è lo stesso, ma l’impianto scenico non avrebbe reso agevole fare diversamente. Il che consente di parlare dello spettacolo, del tutto nuovo e concepito sotto ogni aspetto da Pierre-Emmanuel Rousseau come un omaggio a Carlo Mollino, innanzitutto in quanto ideatore del Teatro Regio. Ma Mollino fu molto di più di un architetto, fu una poliedrica personalità alla cui creatività il teatro ha dedicato in parallelo una mostra nei foyer. Entrambe le iniziative sono state un buon modo per chiudere le celebrazioni del cinquantenario del Regio. Negli stessi anni ’70 è ambientata l’opera, la sua amoralità gaudente si rispecchia nella libertà e nella promiscuità sessuale di quel periodo. Il primo atto è un loft di lusso, con tocchi “molliniani”, in parte utilizzato anche nell’ultimo, dove il richiamo d’epoca è affidato a una piscina come la si vedeva nella più celebre immagine dell’omonimo film di Jacques Deray con Delon e la Schneider. Ma il clou è riservato al secondo atto, la sala del Bal Bullier, raffigurata come un clone perfetto di un ambiente del Regio (opportuno ricordare che tra i capolavori di Mollino c’è un mitico dancing torinese, il “Le Roi”), popolato con una carnevalata di coristi abbigliati nel modo più disparato con autentici vecchi costumi del teatro. Ma sono soprattutto i truccatissimi camerieri in guêpière, calze a rete e stivali a fare spettacolo, in un vogueing scatenato (la coreografia, ottima, è di Carmine de Amicis). Per far colore appare anche un tocco di Freddie Mercury, ma per il resto tutto è stilisticamente in linea e molto up to date: così appariva proprio nel 1973 Frank-N-Furter cantando “Sweet transvestite” in Rocky Horror Show ecosì sono le modelle che Mollino immortalava con la sua Polaroid. Non tutti hanno gradito, ma la maggioranza si è divertita. Per il resto, il regista ha condotto tutta l’azione con molta cura e sostanziale fedeltà testuale (con qualche eccezione comunque ben risolta), contribuendo al successo di questo atteso ritorno della Rondine a Torino.
Giorgio Rampone
Foto: Andrea Macchia