VERDI Simon Boccanegra L. Salsi, M. Rebeka, C. Castronovo, R. Pape, A. Heyboer, A. Di Matteo, L. Long; Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Wiener Philharmoniker, direttore Valery Gergiev regia Andreas Kriegenburg scene Harald B. Thor costumi Tanja Hofmann luci Andreas Grüter
Großes Festspielhaus, 18 agosto
MOZART Idomeneo R. Thomas, P. Murrihy, Y. Fang, N. Chevalier, L. Sekgapane, I. Savage, J. Lemalu, D. Steffens; musicAeterna Choir of Perm Opera, Freiburger Barockorchester; direttore Teodor Currentzis regia Peter Sellars scene George Tsypin costumi Robby Duiveman luci James F. Ingalls
Felsenreitschule, 19 agosto
OFFENBACH Orphée aux enfers A.S. von Otter, M. Hopp, K. Lewek, J. Prieto, M. Beekman, N. Weissmann, L. Desandre, M. Winkler, F. Pappas, R. Pawnuk, V. Berzhanskaya, P. Renz; Vocalconsort Berlin, Wiener Philharmoniker; direttore Enrique Mazzola regia Barrie Kosky scene Rufus Didwiszus costumi Victoria Behr luci Franck Evin
Haus für Mozart, 21 agosto
Quello di Salisburgo è senza dubbio il festival musicale più importante del mondo. Lo attestano i numeri: il budget complessivo supera i 61 milioni di euro, di cui circa la metà (31 milioni) proviene dalla biglietteria (con un occupancy rate del 97%, garantita da spettatori provenienti da 78 diversi Paesi). Sommando i ricavi del botteghino ai contributi privati (sponsor, fondazioni, donatori), la percentuale di budget auto-finanziato supera abbondantemente il 75%. Il complemento a 100 (circa 13,5 milioni di euro) è garantito da sovvenzioni pubbliche.
È ovvio che una manifestazione di questa portata — che nel 2020 festeggerà il suo centenario — svolga una funzione di trend setter rispetto a quanto di nuovo si muove nel mondo dell’opera lirica. A questo riguardo, se il focus di quest’edizione estiva 2019 erano i miti dell’antichità e la loro immutata valenza nel tempo, a livello critico il dato più evidente è una tendenza sempre più marcatamente interventista non solo dei responsabili della parte scenica, ma anche degli esecutori musicali, con il dichiarato intento di parlare con maggior incisività al pubblico di oggi, sia in termini di contenuto che di linguaggio. Delle sette produzioni andate in scena (di cui cinque nuove), in ben quattro casi ci sono stati interventi significativi rispetto a quanto previsto dal compositore. In Alcina, un’aria della protagonista è stata spostata alla fine per meglio servire il messaggio della messa in scena; in Medée — affrontata dal regista Simon Stone con un taglio marcatamente cinematografico — sono stati interamente soppressi i dialoghi parlati, sostituiti dai messaggi lasciati dalla protagonista nella segreteria telefonica del cellulare di Jason. Questi due spettacoli sono recensiti su MUSICA 309 di settembre, cui pertanto si rinvia per i dettagli.
Delle tre opere qui in commento, solo Simon Boccanegra non è stato toccato a livello musicale. L’ambientazione scelta dal regista Andreas Kriegenburg e dal suo team è però contemporanea: il Prologo è dominato dall’onnipresenza degli odierni mezzi di manipolazione di massa, vale a dire gli smartphone, che invadono senza tregua il tempo e lo spazio dei loro proprietari con tweet finalizzati a orientarne le posizioni politiche (e quindi i voti). È così che il “populista” Simone sale al potere, conservandolo per i successivi venticinque anni, durante i quali da paladino del popolo si trasforma in un ricco e privilegiato esponente dell’establishment, minacciato dagli avversari politici, che tramano per riprendersi il potere in un costante e immutato clima di sospetto, di odio, di frattura tra fazioni politiche opposte. Non si tratta di una battaglia sui contenuti, ma di una pura e semplice lotta di potere, nell’ambito della quale la propaganda e la manipolazione delle masse assume un’importanza cruciale. Inutile sottolineare il parallelismo con quanto vediamo oggi accadere nel mondo della politica (sia a livello di modalità di comunicazione, che di risultati). La scena è uno spazio enorme e asettico, in cui è assente ogni riferimento alla natura e rispetto al quale gli uomini appaiono decisamente sottodimensionati, metafora di un potere decisamente fragile nel suo essere autoreferenziale e isolato. L’idea è interessante; nel seguito, però, la regia trascura di portare in primo piano i conflitti privati dei personaggi e le loro interrelazioni con la vita pubblica e trasmette quindi solo parzialmente il contenuto drammaturgico del capolavoro verdiano. L’esecuzione musicale è di altissimo livello, a cominciare dalla concertazione di Valery Gergiev, che alla testa dei Wiener restituisce con grande maestria la tinta scura e il mood profondamente pessimista di quest’opera, mantenendo al contempo sempre elevata la temperatura teatrale. Nel ruolo del titolo Luca Salsi propone un fraseggio vario, sofisticato, intenso; la recitazione, però, è piuttosto scontata e quindi non particolarmente incisiva (evidente, a questo riguardo, la latitanza del regista). Ad onta di occasionali sbavature nell’intonazione, René Pape è un Fiesco ombroso e perentorio, nel canto come nella presenza scenica. Marina Rebeka governa con agio la scrittura non sempre facile di Amelia, sfoggiando un canto ineccepibile a tutte le altezze e intensità. Charles Castronovo è un Gabriele Adorno ardente, che viene a capo più che dignitosamente degli scogli vocali del ruolo. Nel suo essere costantemente truce, il Paolo di André Heyboer è mediocre e monotono; soddisfacente, di contro, il Pietro di Antonio Di Matteo.
Con Idomeneo, il duo Sellars-Currentzis propone un’operazione molto simile a quella della Clemenza di Tito del 2017. Gli interventi sulla parte musicale sono massicci e vengono giustificati sulla base della circostanza che la genesi dell’opera fu alquanto tormentata e oggetto di incessanti ripensamenti e ritocchi da parte di Mozart. Pertanto: quasi tutti i recitativi secchi vengono tagliati; all’inizio del secondo atto viene interpolato il brano Ihr Kinder des Staubes, tratto da Thamos, König in Ägypten, magnificamente eseguito dal basso David Steffens e dal coro; sempre nel secondo atto viene inserita, subito dopo la preghiera di Idomeneo a Nettuno, la scena Ch’io mi scordi di te?… Non temer amato bene. Quest’ultima fu scritta da Mozart in occasione dell’esecuzione viennese del 1786 al Palais Auersperg. Il brano fu poi cantato dal soprano Nancy Storace (la creatrice del ruolo di Susanna) nel corso del suo concerto d’addio e, per l’occasione, il violino obbligato, originariamente previsto, fu sostituito dal pianoforte, suonato dallo stesso Mozart; ed è proprio in questa versione con pianoforte che questo recitativo e aria KV 505 sono stati proposti. A livello concettuale Sellars accosta la vicenda di Idomeneo ad un tema di grande attualità: l’inquinamento del pianeta, causato da una molteplicità di fattori dei quali uno dei più rilevanti è l’eccesso di materie plastiche disperse nell’ambiente, soprattutto nei mari. Il messaggio che Sellars si incarica di trasmettere è semplice: così come Idomeneo non esclude di sacrificare la vita del proprio figlio, allo stesso modo noi genitori di oggi, pur sostenendo di desiderare sopra ogni altra cosa il bene dei nostri figli, non ci preoccupiamo di tentare di risolvere alla radice un fenomeno che ne mette a rischio la sopravvivenza futura. Nell’abdicazione finale di Idomeneo in favore di Idamante è facile leggere la spinta delle nuove generazioni a prendere in mano il proprio destino; esattamente come sta accadendo oggi con i giovanissimi attivisti ambientali che si battono per preservare il pianeta nel quale essi (e i loro figli) dovranno vivere; tanto più che “gli Idomeneo” di oggi continuano a procrastinare i necessari interventi per risolvere un problema sempre più grave. Alla fine il processo di riconciliazione — non solo dell’uomo con gli elementi, ma anche tra le diverse generazioni — è il frutto di un esercizio collettivo: tema sistematicamente presente nelle produzioni di Sellars. A latere viene altresì trattato il tema dell’immigrazione e dell’accoglienza (in maniera invero un po’ forzata): le sempre più frequenti catastrofi ambientali causano masse di rifugiati in cerca di luoghi alternativi nei quali vivere. Il recitativo iniziale di Ilia, dunque, viene rappresentato come un racconto ad una sorta di tribunale dell’immigrazione delle peripezie belliche (e conseguenti tragedie famigliari) che l’hanno costretta prigioniera in terra nemica. La scenografia è iper-stilizzata e evocativa: lungo l’enorme palcoscenico della Felsenreitschule vengono disposte alcune grandi forme di plastica, dapprima a terra e poi sollevate a mezz’aria mediante cavi di acciaio. Di tanto in tanto fanno capolino alcune colonnine fluorescenti di plexiglas, molto simili a quelle viste nella Clemenza di Tito del 2017. Curatissima la direzione degli attori, che anche durante le lunghe arie soliste fa dialogare scenicamente i personaggi tra loro. L’acme viene raggiunto nel sublime quartetto del secondo atto, nel quale, secondo Sellars, Mozart mette in musica la dottrina buddista delle Quattro Nobili Verità: Idomeneo, Idamante, Ilia e Elettra, partendo dall’intima convinzione che la sofferenza individuale di ognuno di loro è la massima che si possa provare, giungono progressivamente a riconoscere che tutti soffrono; una consapevolezza che forma la base dell’eguaglianza e che è all’origine della trasformazione della rabbia in compassione, dell’odio in amore; un’interpretazione indubbiamente suggestiva di uno dei vertici della partitura. Meno riuscito il balletto finale, risolto con una danza polinesiana di cui forse occorrerebbe conoscere il codice espressivo per meglio capirla e contestualizzarla. Spettacolo, in definitiva, di notevole interesse, alla cui riuscita contribuisce in maniera determinante la direzione di Teodor Currentzis che per l’occasione dirige la Freiburger Barockorchester (e non la sua musicAeterna). La FBO è verosimilmente la miglior formazione al mondo per quanto riguarda gli strumenti originali e si esalta sotto la guida di Currentzis, assecondandone mirabilmente la fantasiosa varietà nei tempi, nelle sonorità, nella dinamica, nei dettagli strumentali, perfino nelle pause; il tutto governato dalla consueta, acutissima sensibilità teatrale. Equilibrato il cast, che trova però un punto debole in Russell Thomas, parso molto più a suo agio come Tito che non come Idomeneo. La linea vocale non sempre è a fuoco – soprattutto nei passaggi di agilità – e la caratterizzazione del personaggio appare banale e monocorde. Sorprendente l’Ilia ad un tempo toccante e battagliera di Ying Fang, che sfoggia un canto morbidissimo e sorvegliato. Ugualmente in regola sul piano tecnico Paula Murrihy, che restituisce efficacemente le esitazioni e i tormenti interiori di Idamante. Nicole Chevalier è un’Elettra con qualche fissità nel registro acuto ma coinvolgente dal punto di vista interpretativo. Buono l’Arbace di Levy Sekgapane, al pari del Nettuno di Jonathan Lemalu; accettabile il Gran Sacerdote di Issachah Savage. Eccezionale, come sempre, la prestazione del coro musicAeterna.
Anche su Orphée aux enfers (prima operetta di Offenbach ad essere rappresentata a Salisburgo; l’occasione l’ha offerta la ricorrenza del bicentenario della nascita del compositore) gli interventi testuali sono stati assai rilevanti. Non tanto a livello musicale, dove Enrique Mazzola opta per una (tutto sommato legittima) crasi delle varie versioni, quanto piuttosto nei dialoghi parlati. Innanzitutto la lingua tedesca rimpiazza il francese; inoltre, Barrie Kosky chiede a Max Hopp non solo di interpretare John Styx (il traghettatore della morte), ma anche di doppiare tutti gli altri personaggi, che perciò nelle parti parlate si limitano a muovere le labbra (come a dire: Eros parla in francese, Thanatos in tedesco). La sincronia è stupefacente, così come sensazionale è la capacità di Hopp di variare le voci, arricchendo per giunta l’eloquio con ogni sorta di rumore di fondo. Al netto dell’ovvia ammirazione per la straordinaria performance dell’attore tedesco, questa scelta singolare convince solo in parte. Per il resto, Kosky prova a riproporre l’atmosfera che caratterizzava questo genere di spettacoli nella Parigi del XIX secolo. Gli ensemble erano alquanto eterogenei: cantanti d’opera, clowns da vaudeville, danzatori erotici in costumi semi-trasparenti, uomini che recitavano ruoli da donna e viceversa; l’atmosfera stessa del teatro era decisamente “calda”: lo spazio era piccolo, le poltrone strette, i corpi vicini, l’aria era satura di fumi e di profumi, di alcol e di gas (quello delle lampade). L’intento dichiarato di Kosky non è nostalgico: gli interessa piuttosto mettere in scena una commedia surreale e dionisiaca, senza steccati di temi e di generi, che mescola canzone e rivista, burlesque e slapstick, in linea con lo spirito satirico che anima la rivisitazione in chiave beffarda del mito di Orfeo operata da Offenbach, nella quale Orfeo stesso è un musicista mediocre e vanesio e il ruolo centrale è assunto da Euridice (che, invece, nella declinazione tradizionale del mito è meramente passiva). Nel mostrare le difficoltà coniugali tra i due (ed anche quelle tra Giove e Giunone), celate dietro l’ipocrisia di una falsa armonia, Offenbach si fa beffe del matrimonio cattolico, rivolgendosi ad un pubblico che era pieno di uomini con amanti, così come di donne che vendevano servizi sessuali in cambio di denaro. In quest’ottica il ruolo svolto dal personaggio dell’Opinione Pubblica (spesso ridotto o addirittura omesso nelle rappresentazioni moderne) è fondamentale: un’apologeta ipocrita del narcisismo maschile, la cui centralità viene ripristinata da Kosky, che la raffigura come la moglie di un pastore protestante svedese. Della parodia di Offenbach fa parte anche una rappresentazione degli inferi come luogo ludico e tutt’altro che punitivo, ove nessuno è interessato alla colpa o alla vendetta. Tutto ciò trova corrispondenza in uno spettacolo volutamente coloratissimo e eccessivo (a tratti fin troppo), coronato da un baccanale conclusivo strepitoso. Dal podio Enrique Mazzola coordina molto efficacemente questa vera e propria – è il caso di dirlo — macchina infernale, imponendo un passo a rotta di collo che i Wiener – ça va sans dire – seguono con grande puntualità e precisione. L’Euridice di Kathryn Lewek mette in mostra mezzi interessanti, con sovracuti decisamente penetranti, ancorché un po’ fissi, e una notevole verve scenica; peccato solo che infarcisca la parte con smorfie e gridolini alla lunga un po’ stancanti. Dello strepitoso Max Hopp si è già detto. Tra gli altri meritano una menzione l’Opinione Pubblica logora ma scenicamente centrata di Anne Sofie von Otter, l’estroverso Jupiter di Martin Winkler, il Pluto gustosissimo di Marcel Beekman, l’Orfeo vanaglorioso di Joel Prieto.
Paolo di Felice
Foto: Monika Rittershaus, Ruth Walz