MOZART Le Nozze di Figaro A. Schuen, A. González, S. Devieilhe, K. Bączyk, L. Desandre, K. Hammarström, P. Kálmán, M. Günther, A. Morstein, S. Starke, R. Pawnuk; Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Wiener Philarmoniker, direttore Raphaël Pichon regia Martin Kušej scene Raimund Orfeo Voigt costumi Alan Hranitelj luci Friedrich Rom
Haus für Mozart, 20 agosto
MARTINŮ The Greek Passion G. Bretz, S. Kohlhepp, S. Jakubiak, C. Workman, C. Gansch, M. I. Rašič, M. Schmidlechner, A. Baliñas Vieites, J. Hubbard, A. Lennert, H. Rasker, L. Stoker, R. Dölle, L. Goliński, S. Wilde, T. Todua; Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Salzburger Festspiele und Theater Kinderchor, Angelika Prokopp Sommerakademie der Wiener Philarmoniker, Wiener Philarmoniker, direttore Maxime Pascal regia Simon Stone scene Lizzie Clachan costumi Mel Page luci Nick Schlieper
Felsenreitschule, 22 agosto
VERDI Falstaff G. Finley, S. Keenlyside, B. Volkov, T. Ebenstein, M. Colvin, J. Larsen, E. Stikhina, G. Semenzato, T.A. Baumgartner, C. Molinari; Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Angelika Prokopp Sommerakademie der Wiener Philarmoniker, Wiener Philarmoniker, direttore Ingo Metzmacher regia Christoph Marthaler scene e costumi Anna Viebrock luci Sebastian Alphons
Großes Festspielhaus, 23 agosto
VERDI Macbeth V. Sulimsky, A. Grigorian, T. Nazmi, J. Tetelman, E. LeRoy Johnson, C. Piva, A. Kulagin; Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Angelika Prokopp Sommerakademie der Wiener Philarmoniker, Wiener Philarmoniker, direttore Philippe Jordan regia Krzysztof Warlikowski scene e costumi Malgorzata Szczęśniak luci Felice Ross
Großes Festspielhaus, 24 agosto
Nell’esaminare il programma del più ricco e prestigioso festival del mondo, due circostanze erano parse sorprendenti: da un lato la presenza di due vecchie glorie del Regietheater di matrice teutonica, vale a dire Martin Kušej e Christoph Marthaler, che negli ultimi anni hanno fatto capolino solo occasionalmente nei radar dei teatri d’opera; dall’altro lato l’accoppiamento dei suddetti con due direttori d’orchestra che (sulla carta e per motivi diversi) sembravano fuori posto. Alfiere degli strumenti originali e delle pratiche esecutive storicamente informate, Raphaël Pichon non è infatti nel suo habitat naturale a contatto con i Wiener Philharmoniker; così come Ingo Metzmacher, che si dedica prevalentemente alla musica moderna e contemporanea (al punto da aver scritto un libro dal titolo Keine Angst vor neuen Tönen, cioè “Niente paura di fronte ai nuovi suoni”), non viene spontaneamente associato a Verdi. I risultati in scena hanno confermato i timori della vigilia, anche se l’esito delle produzioni de Le Nozze di Figaro e di Falstaff non è paragonabile: interessanti ma incompiute e dispersive le prime; sconfortante il secondo.
Da tempo, i registi de Le Nozze di Figaro si sono ormai quasi tutti affrancati da una concezione meramente e semplicisticamente legata alla tradizione dell’opera buffa, per esplorarne la multiformità tematica: la satira sociale e l’abuso di potere (potere del denaro e potere di genere, ossia l’autorità coercitiva esercitata dall’uomo sulla donna), ma anche l’incostanza delle passioni, il tumulto degli istinti, l’incertezza delle inclinazioni sessuali; il tutto in un quadro espressivo nel quale l’elemento comico non viene mai del tutto trascurato. Kušej, invece, bandisce ogni forma di umorismo e fa delle Nozze un’opera puramente noir, dominata dalla violenza, dalla sopraffazione, dalle dipendenze (da droghe, psicofarmaci, alcool). L’ambientazione è contemporanea: ci troviamo verosimilmente in un hotel, del quale sono riconoscibili una serie di ambienti ben definiti (il bar, le toilettes, una sala da bagno, la zona dedicata all’immondizia, il garage sotterraneo) ed alcuni spazi di transizione alquanto neutri. Il passaggio tra i vari locali avviene generalmente senza necessità di interruzioni, ma in alcune circostanze occorre una breve pausa, durante la quale il buio in sala viene riempito con improvvisazioni di fortepiano e rumori di sottofondo. Il tono generale viene impostato fin dall’inizio: durante l’ouverture i vari personaggi sono schierati al proscenio, a mo’ di tableau vivant, ognuno intento ad assumere la sua sostanza psicotropa preferita. L’unico che è esente da dipendenze è Cherubino, che nelle intenzioni del regista dovrebbe rappresentare il personaggio-cardine dell’opera, l’incarnazione musicale di ciò di cui ognuno è alla ricerca, ovverosia l’amore. Il paggio (che qui, in verità, è un uomo giovane e attraente) emana un’energia sessuale che avvince chiunque gli sta intorno. L’idea non è banale, ma non viene sostanzialmente sviluppata. Ed è questo il difetto principale della messa in scena: diversi sono gli spunti interessanti, che però vengono sistematicamente lasciati in sospeso, senza che nel seguito il regista si occupi di ricondurli ad una qualche unità narrativa. Il risultato è uno spettacolo incoerente, con l’aggravante di risultare tragicamente privo di idee nel quarto atto. I personaggi, inoltre, sono dipinti in maniera spesso de-correlata gli uni dagli altri, il che contribuisce alle incongruenze del racconto. Spettacolo deludente, in definitiva, ad onta di un assunto di partenza insolito e, per certi versi, non privo di una sua fascinazione. Sul piano musicale l’abbinamento Pichon-Wiener si rivela insoddisfacente, all’insegna del “vorrei-ma-non-posso”: il talentuoso direttore francese non se la sente, infatti, di spronare la gloriosa falange viennese sui sentieri di una prassi esecutiva più moderna, fatta di suoni sferzanti e taglienti, di dinamiche e agogiche più marcate e mobili, improntata ad una libertà interpretativa più ampia e fantasiosa, e si accontenta di qualche suono secco e forzato, di tempi generalmente spediti ma privi di quel nervosismo e di quella tensione costante che rappresentano il marchio di fabbrica delle esecuzioni storicamente informate. Nei recitativi secchi, al fortepiano viene accostato un violoncello, ma anche in questo caso senza troppo coraggio: i recitativi acquistano qualche colore in più, ma siamo ben distanti dal pulsare di un vero e proprio continuo, che sostenga la narrazione con il suo supporto ritmico supplementare e la sua varietà di colori e accenti. Nell’ambito di un cast alterno, svetta la vocalità cristallina di Sabine Devieilhe, che scenicamente propone una Susanna decisamente più attratta dal Conte e da Cherubino di quanto non lo sia da Figaro (ancora una volta: spunto interessante ma privo di sviluppi…); parimenti rimarchevole il Cherubino di Léa Desandre, che associa ad una vocalità fresca e vellutata una seducente disinvoltura scenica. Andrè Schuen è un Conte violento e sessualmente rapace, che mantiene però un apprezzabile aplomb aristocratico in forza di un’emissione rotonda e controllata. Le note positive terminano qui: Adriana González è una Contessa vocalmente morbida e tornita ma anodina dal punto di vista espressivo; Krzysztof Bączyk un Figaro privo di carisma e dalla dizione perfettibile. Di scarso interesse i personaggi secondari: il Don Basilio di Manuel Günther è il solito prelato omosessuale, Kristina Hammarström la solita Marcellina stizzosa, Peter Kálmán un Bartolo in patente difficoltà con il sillabato in tempo rapido. Tra i comprimari si salva la Barbarina di Serafina Starke – anche se l’idea di trasformare Don Curzio nel barista dell’hotel mi è parsa simpatica, ancorché fine a sé stessa.
Il Falstaff di Christoph Marthaler si ispira a tre film collegati alla figura di Orson Welles: Chimes at Midnight (adattamento del Falstaff shakespeariano, nel quale il regista recita il ruolo del protagonista), The Other Side of the Wind e il documentario They’ll Love Me When I’m Dead di Morgan Neville, che documenta il tormentato making of proprio di The Other Side of the Wind, nel quale Welles interpreta metaforicamente se stesso in declino, nell’atto di tentare un mai riuscito ritorno alla ribalta hollywoodiana. Welles riuscì a montare il film solo in parte ed è stato grazie ad uno dei co-registi, Peter Bogdanovich, che, oltre quarant’anni dopo le riprese, la pellicola è stata finalmente presentata in prima assoluta al pubblico della mostra del cinema di Venezia del 2018. Quanto precede spiega la presenza costante in scena di un attore silente (Marc Bodnar), che interpreta proprio il corpulento regista americano, intento a dirigere Falstaff cercando di governare un cast litigioso e recalcitrante. La scena è divisa in tre parti: a sinistra una sala dove si visiona il materiale girato; al centro lo studio di registrazione; a destra una porzione di una villa con piscina. L’intrigante suggestione di partenza naufraga però in una realizzazione caotica e incomprensibile, nel corso della quale non è mai chiaro se gli attori stiano interpretando loro stessi o i personaggi che devono incarnare in scena. Si aggiungano la pletora di gag grossolane (per molte delle quali il regista si avvale di numerosi figuranti), gli scontati riferimenti alle molestie sessuali che tanto hanno fatto scandalo nel mondo del cinema (e che qui conducono ad una sorta di “colpo di stato” delle donne, che si impossessano della regia dello spettacolo a partire dal terzo atto), la messa in ridicolo di tutti i topoi classici di Falstaff (la pancia, le corna, il tuffo nel Tamigi), e si avrà la misura di una regia sconclusionata e irritante. Come noto, dal punto di vista musicale la storia interpretativa dell’estremo capolavoro verdiano oscilla tra due concezioni opposte: da un lato l’approccio asciutto ed incisivo che, rifacendosi alla lezione di Toscanini, ne valorizza soprattutto la teatralità, a scapito, inevitabilmente, dell’introspezione; dall’altro lato un’ottica più analitica, che ne mette in luce la componente elegiaca e malinconica. Molti direttori hanno tentato una sintesi tra questi due opposti, alcuni con esito felicissimo (Gatti, Harding), altri meno. Pochi, però, hanno brutalizzato questa partitura raffinatissima come ha fatto Ingo Metzmacher, che si è limitato ad accelerare i tempi e ad intensificare il volume dell’orchestra, come se ciò significasse “fare teatro”. La scarsa attenzione al testo e l’imprecisione nella gestione degli articolati concertati completano un panorama desolante. Nemmeno i cantanti hanno fornito particolari motivi di soddisfazione. Gerald Finley è apparso vocalmente appannato e interpretativamente monocorde nel disegnare un Falstaff costantemente amaro e incarognito. Simon Keenlyside disegna un Ford stralunato, nel canto e nelle movenze, che avrebbe potuto essere ben altrimenti stimolante in un contesto diverso. Bogdan Volkov sarebbe un Fenton di bel timbro e di lodevole propensione al fraseggio se non venisse affossato dal direttore d’orchestra, che nel momento magico del sonetto del terzo atto lo seppellisce sotto una colata di lava sonora. Tra le signore, l’unica davvero in regola è la Nannetta di Giulia Semenzato. Elena Stikhina mette in mostra i suoi ragguardevoli mezzi vocali, ma, abbandonata a sé stessa dal regista (come tutti gli altri, del resto), non sembra particolarmente a suo agio nei panni di un personaggio del quale non sa palesemente cosa fare. Tanja Ariane Baumgartner – cantante di mezzi e personalità considerevoli in altro repertorio – qui è un pesce fuor d’acqua e la Meg di Cecilia Molinari non lascia certo il segno. Esauriscono questo quadro scoraggiante gli interpreti di Cajus, Bardolfo e Pistola, nessuno di madrelingua italiana, tutti con evidenti difficoltà di pronuncia e vocalmente modesti, tutti caratterizzati in modo banale, a tratti triviale, dalla regia.
The Greek Passion è un’opera di raro ascolto. In Italia se ne ricorda una splendida produzione nel 2011 al Teatro Massimo di Palermo, diretta da Asher Fisch, con la regia di Damiano Michieletto. Del capolavoro di Bohuslav Martinů esistono due versioni: la prima, completata nel 1957 e destinata alla londinese ROH (donde il libretto in lingua inglese), non andò in scena, nonostante la sponsorship dell’allora direttore musicale del Covent Garden Rafael Kubelik, connazionale di Martinu; in seguito, l’opera fu significativamente rimaneggiata e presentata a Zurigo (in una traduzione in tedesco) nel 1961, due anni dopo la morte del compositore. Nella seconda versione, più stringata, diretta e spontanea della prima, Martinů tagliò gran parte dei dialoghi parlati. Per questa produzione salisburghese è stata scelta la versione di Zurigo, ripristinando però la lingua inglese. Il libretto – approntato dallo stesso Martinu – si basa su un romanzo di Nikos Kazantzakis, dal titolo O Christós xanastavrónetai, ossia “Cristo ricrocifisso”. Gli abitanti di un villaggio greco celebrano la Pasqua; il sacerdote della comunità Grigoris assegna i ruoli in vista della tradizionale rappresentazione della passione, che i paesani saranno chiamati ad inscenare l’anno seguente. Irrompe un gruppo di profughi esausti, in cerca di asilo. Dopo l’iniziale allontanamento, fomentato da Grigoris con il più classico degli espedienti della propaganda politica, cioè la paura, la comunità si divide progressivamente tra coloro che non intendono prestare soccorso ai rifugiati (o magari provano a sfruttare la situazione per arricchirsi a loro spese) e chi invece, mosso da autentica carità cristiana, ritiene di doverli aiutare. Promotori di questo spirito di solidarietà sono in primis Katerina (donna chiacchierata per i suoi facili costumi e, per questo motivo, assegnataria del ruolo della Maddalena) e il pastore Manolios, cui è affidato il ruolo di Gesù. I profughi, nel frattempo, si sono insediati nelle vicine montagne; commovente la scena durante la quale un anziano della comunità decide di farsi murare nelle fondamenta del nuovo villaggio per consolidarne le basi: un cerimoniale che sottolinea la determinazione e l’energia dei rifugiati. Manolios, dal canto suo, interpreta inizialmente il ruolo di Gesù tentando di rifuggire dalle passioni terrene per essere all’altezza dell’immagine tramandata dalla tradizione; ma progressivamente realizza che Cristo è un uomo, con tutte le sue pulsioni e contraddizioni, ciò che – ed è questo, credo, il tema centrale dell’opera – non gli impedisce di essere onesto e autentico, di ascoltare e supportare le persone in difficoltà. In una parola: di essere cristiano. Le sue prese di posizione a favore dei profughi, via via più veementi, attraggono l’odio della frangia più estremista della comunità (ovviamente aizzata da Grigoris), che finisce con l’ucciderlo, al fine di preservare lo status quo. Dal punto di vista musicale, Martinu realizza un felice quanto complesso sincretismo di stili e generi: il canto bizantino, gli inni ortodossi e il folklore ceco si mescolano con reminiscenze del repertorio impressionista francese, di Messiaen, di Stravinski. La luminosità dei colori orchestrali e la solarità delle armonie imprime a questa musica una luce quasi mediterranea. Supportato dai Wiener finalmente all’altezza della loro fama, Maxime Pascal mette in adeguata evidenza il potente afflato drammatico della partitura in forza di una direzione contrastata dal punto di vista dinamico, varia e sofisticata sul piano timbrico. Nell’ambito di un cast robusto ed equilibrato emerge il tenore tedesco Sebastian Kohlhepp nel defatigante ruolo di Manolios, assai impegnativo anche dal punto di vista scenico. Non gli è da meno la Katerina di Sara Jakubiak, punta di diamante di una sezione femminile della distribuzione che schiera altresì l’ottima Christina Gansch (Lenio) e la talentuosa Teona Todua, impegnata nel brevissimo ma intenso intervento di Despinio, una rifugiata che muore per le fatiche del viaggio. Gábor Bretz è un Grigoris fin troppo monolitico; Lukasz Golínski esprime efficacemente l’umanità e la forza d’animo di Fotis (il sacerdote che guida i profughi). Da segnalare anche l’ottimo Yannakos di Charles Workman. In quest’opera un ruolo rilevantissimo è affidato ai cori: il coro dell’Opera di Vienna e il coro di voci bianche del festival offrono qui una prestazione di straordinaria compattezza e intensità. Simon Stone, noto per le sue riletture, talvolta radicali, dei capolavori del repertorio, opta in questo caso per una fedele adesione al libretto. Alle prese con un lavoro ignoto alla maggior parte degli spettatori, Stone ritiene infatti che il suo dovere non sia tentare improbabili trasposizioni di tempo e luogo (che nel caso di specie sarebbero peraltro scontatissime), ma piuttosto quello di provare a trasformare in un “classico” un capolavoro ingiustamente e inspiegabilmente trascurato. Ecco dunque che gli abitanti del villaggio vestono di grigio, a significarne la supina e immutabile adesione ai precetti di una tradizione che forse non comprendono nemmeno più e che, certamente, è più forma che sostanza. Il contrasto con gli abiti colorati dei rifugiati, pronti a tutto per rifondare la loro esistenza, è icastico. Quando però alcuni paesani decidono di prendere le parti dei rifugiati, ne cogliamo chiaramente il senso di liberazione e di profonda gioia; ciò che evidenzia quanto sterile sia la chiusura pregiudiziale nei confronti di esseri umani massimamente motivati e resilienti, in grado di arricchire e trasformare la cultura di chi li ospita. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro… Una direzione accuratissima degli attori e delle masse suggella uno spettacolo splendido, accolto dal pubblico con grande ammirazione ed emozione.
Nel Macbeth secondo Krzysztof Warlikowski e Malgorzata Szczęśniak (partner artistici ma anche nella vita), la spirale omicida dei coniugi Macbeth scaturisce dalla frustrazione di non poter avere figli. Mentre le streghe pronosticano l’avvenire al futuro re di Scozia e all’amico Banco (futuro padre di re), su uno schermo assistiamo ad una visita ginecologica di Lady, al termine della quale ne viene certificata la sterilità; pur sforzandosi di trattenere l’emozione, Lady è visibilmente turbata. La presenza tra le streghe di alcuni fanciulli con i volti grotteschi e deformati – che ritorneranno anche in seguito – rende evidente che l’elemento sovrannaturale altro non è che l’emanazione dell’inconscio di Macbeth. La mancanza di progenie implica l’impossibilità di tramandare il proprio potere; la sofferenza che ne deriva scatena l’invidia di Macbeth nei confronti dei figli altrui, segnatamente quelli di Banco e di Macduff. Il passo dall’invidia alla violenza e all’assassinio è breve e Macbeth, sobillato da una Lady inizialmente razionale e risoluta, si macchierà dei crimini che conosciamo, più per rabbia e risentimento che non per sete di potere. L’impianto scenico occupa tutta la ragguardevole larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus e rappresenta una sorta di enorme sala d’attesa, che si arricchisce, a seconda delle circostanze, di altri elementi, tra cui le immancabili proiezioni: nel caso specifico si tratta di estratti da Edipo Re e da Il Vangelo Secondo Matteo di Pasolini, la cui pertinenza con le vicende dei Macbeth – piuttosto dubbia per la verità – ci viene spiegata dal Dramaturg Christian Longchamp nel programma di sala (spiegazione che ha a che fare con la fondamentale domanda esistenziale “chi sono io?” e su cui possiamo tranquillamente sorvolare, in quanto mi è parsa una cervellotica quanto inutile ridondanza). Al netto di ciò, i momenti teatralmente intensi sono numerosi e ben diretti. Warlikowski ci risparmia (e gliene siamo grati) il solito fantasma di Banco insanguinato durante la cena del secondo atto: Macbeth scorge l’ex-amico in un palloncino sul quale lui stesso aveva disegnato una faccia mentre attendeva la conferma dell’avvenuto omicidio da parte dei sicari. La scena delle apparizioni è sostanzialmente un delirio onirico. Durante Patria oppressa – cantata dal coro schierato ai lati del palcoscenico – Lady Macduff (qui incarnata dall’attrice Jutta Bayer) avvelena i figli per sottrarli all’eccidio perpetrato da Macbeth: scena, quest’ultima, assai forte. Via via che si procede nella narrazione, Macbeth decade fisicamente fino a diventare poco più che un automa, portato in giro dai suoi fedelissimi su una sedia a rotelle. Stesso destino attende Lady che, più che come una sonnambula, viene dipinta come una donna farneticante e devastata dall’alcool e dal senso di colpa, che tenta di suicidarsi tagliandosi le vene. Si finisce con i Macbeth legati l’uno all’altra, impotenti e inebetiti, che verranno verosimilmente passati per le armi dai seguaci dei nuovi regnanti. In definitiva, mi pare che Warlikowski voglia raccontare essenzialmente un dramma borghese, impregnato di connotazioni psicanalitiche. Lettura stimolante ma parziale, nella misura in cui, concentrandosi sull’interiorità dei personaggi, trascura i risvolti politici della vicenda e l’ansia di potere, che induce i Macbeth ad intervenire sulle profezie cercando di accelerarne o modificarne il corso: come se l’uomo fosse in grado di cambiare un destino già scritto. Alla direzione musicale di Philippe Jordan non mancano il nerbo, lo slancio, la varietà di colori; insomma: la teatralità; i Wiener, qui impiegati in maniera a loro congeniale, forniscono un supporto eccellente. Non altrettanto si può dire del coro, nulla più che corretto: il finale primo manca del suo proverbiale impeto. L’attesissima Asmik Grigorian – beniamina del pubblico del festival – non delude le aspettative: la sua Lady è scenicamente strepitosa nel mettere in evidenza tutte le sfumature psicologiche del personaggio, attraverso una recitazione dettagliatissima sia nelle movenze che nelle espressioni del viso, talmente penetranti che “arrivano” anche a metà della vasta sala salisburghese. Ma anche vocalmente il soprano lituano stupisce positivamente (e ciò era meno scontato) in forza di un’emissione granitica e ben proiettata – che le consente di governare con apparente facilità le asperità del ruolo – e di un fraseggio eloquente, che una dizione più accurata e netta può ulteriormente migliorare. Di fronte a cotanta Lady, il Macbeth di Vladislav Sulimsky risulta giocoforza pallido; il suo merito principale è di credere pienamente nella concezione registica: ciò gli consente di comporre, in forza di un fraseggio duttile e di una recitazione espressiva, un Macbeth cupo e angosciato. Tareq Nazmi è un basso dalla linea vocale morbida e pulita; il suo Banco difetta però di espressività. Jonathan Tetelman è un Macduff solido e squillante. Apprezzabili il Malcolm di Evan LeRoy Johnson e il Medico di Aleksei Kulagin; notevole la Dama di Caterina Piva.
Paolo di Felice