GLINKA Trio pathétique per clarinetto, fagotto e pianoforte in re minore BEETHOVEN Otto variazioni sul tema Là ci darem la mano, WoO 28 (trascrizione per flauto, clarinetto e fagotto) SPOHR Quintetto per pianoforte e fiati, op. 52 SAINT-SAËNS Tarantella per flauto, clarinetto e pianoforte, op. 6 RIMSKI-KORSAKOV Quintetto per pianoforte e fiati in si bemolle maggiore Les Vents français (flauto Emmanuel Pahud clarinetto Paul Meyer corno Radovan Vlatković fagotto Gilbert Audin pianoforte Éric Le Sage)
Lugano, LAC, 8 gennaio 2019
STRAUSS Metamorphosen BRUCH Romanza per viola e orchestra; Concerto per clarinetto, viola e orchestra in mi minore PROKOFIEV Sinfonia n. 1 in re maggiore “Classica” Orchestra della Svizzera Italiana, viola e direttore Yuri Bashmet clarinetto Paolo Beltramini
Lugano, Auditorio Stelio Molo, 10 gennaio 2019
WIDMANN Con Brio, ouverture per orchestra;180 beats per minute per sestetto d’archi WEBER Concerto per clarinetto e orchestra n. 1 in fa minore MENDELSSOHN Sinfonia n. 1 in do minore Orchestra della Svizzera Italiana, clarinetto e direttore Jörg Widmann
Lugano, Auditorio Stelio Molo, 17 gennaio 2019
IVES Decoration Day dalla Holidays Symphony BEETHOVEN Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in do minore, op. 37 BRAHMS Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 73 pianoforte Igor Levit Wiener Philharmoniker, direttore Michael Tilson Thomas
Lugano, LAC, 18 gennaio 2019
Quattro concerti in dieci giorni, si potrebbe titolare questo articolo, con un’eco donizettiana: e solo questo dato risulta impressionante, perché, pur figlio di una fortunata coincidenza, è rivelatore della qualità e dell’intensità della vita musicale di Lugano, città di poco più di 60mila abitanti (e contando tutto il Canton Ticino siamo sui 350mila) che si permette – beati loro! – due stagioni tra loro molto diverse, per filosofia e organizzazione, ma fortunatamente compatibili. Da una parte c’è l’Orchestra della Svizzera Italiana, da quest’anno completamente indipendente dalla Radiotelevisione svizzera, che però continua a trasmetterne i concerti: un’orchestra di dimensioni limitate, ma dalla qualità molto alta, specie da quando Markus Poschner ne ha preso le redini (la vittoria con il ciclo Brahms, davvero rivelatore, agli ICMA dell’anno scorso ne è una prova), certamente più latina (e italiana) che nordica nelle sonorità e nei fraseggi, e soprattutto di una duttilità capace di rimediare anche alle serate più sfortunate (ci tornerò dopo). Dall’altra parte, Lugano Musica, erede di Lugano Festival, istituzione di ospitalità, che sotto la guida di Etienne Reymond porta sul lago, quest’anno, i migliori nomi mondiali: dai Wiener ai Berliner, da Petrenko alla Mozart con Haitink, dalla Frang (che in autunno si è prodotta in un Concerto di Beethoven, con Ticciati sul podio, il cui ricordo mi porterò sino alla tomba) alla Faust.
Ma torniamo da capo, con ordine: i concerti dell’Osi di cui riferisco facevano parte dei quattro che, nel mese di gennaio, vengono programmati all’Auditorio Stelio Molo (sede della Radio), piccolo e acusticamente miracoloso, strutturati secondo la formula “play & conduct”, ossia con un solista che è anche direttore. Non serve neanche dire quanto la moda di salire sul podio da parte dei solisti (di ogni strumento) sia talvolta figlia dell’insofferenza verso tempi di prova con i direttori sempre più ridotti, talvolta del desiderio di incamerare un doppio cachet, o anche semplicemente di ambizioni artistiche raramente supportate da adeguata preparazione: ma, almeno sulla carta, i tre nomi proposti dall’Osi (Bashmet, Widmann e, giovedì 24, Krylov) potevano funzionare. Rimanendo ai primi due, il risultato è stato ottimo in un caso solo: il grande Yuri Bashmet, infatti, è arrivato a Lugano in condizioni fisiche evidentemente precarie, e non solo la sua performance alla viola è stata incommentabile — e nulla quindi dirò, per rispetto a un musicista del suo calibro — ma anche come direttore non si è andati oltre ad una prima, sommaria lettura. Ammirevole, però, il supporto dell’Osi e di Paolo Beltramini (solista con Bashmet in Bruch) nell’attenderlo, coprirlo, aiutarlo: di più era impossibile.
Con Jörg Widmann, invece, la formula “play & conduct” si è allargata all’aspetto della composizione, che secondo me è il più profondo e autentico del suo essere musicista, quello che, quantomeno, si avverte profondamente anche quando Widmann suona o dirige. C’è un senso, infatti, di un legame con il passato che viene continuamente analizzato, ripensato criticamente, quasi a chiedersi che senso abbia quella composizione, quel modo di suonare, nel mondo di oggi. Il concerto si è aperto con due brani di Widmann stesso, che più diversi non potevano essere: il primo, Con brio, è un ouverture per orchestra scritta nel 2008, quando aveva 35 anni, che recupera frammenti, incisi, atmosfere, sonorità della Settima e dell’Ottava sinfonia di Beethoven per mischiarli a gesti musicali tipici della musica di oggi, in un incontro-scontro fra noto e ignoto, tra memoria e attualità, tra armonia e disarmonia. Un’operazione prettamente colta, culturale, che è molto lontana da 180 beats per minute, scritta nel 1993 a soli vent’anni, che è molto più pop nel suo giocare con gli impulsi ritmici, e che è pop persino quando inserisce una forma colta, anzi la forma colta per eccellenza, ossia la fuga. E poi, dicevo, Widmann è compositore anche quando suona: il celeberrimo Concerto per clarinetto di Weber lo si può sentire anche suonato con più perfezione strumentale, ma lo stacco di tempo davvero azzardato dell’ultimo movimento, velocissimo, aveva un senso di ricreazione quasi improvvisata (che d’altra parte è filologico, poiché il compositore lasciò ampia libertà sulla parte solistica al primo interprete). E Widmann è compositore quando dirige: lo prova la resa della bellissima Prima di Mendelssohn, lavoro di un genio quindicenne, anch’essa in perfetto equilibro fra il passato di Haydn e Beethoven e uno stile già maturo. Widmann è aggiornatissimo sulle nuove conquiste musicologiche (poco vibrato, timpani piccoli con bacchette di legno) e su fraseggi e articolazioni: magari non ha sempre la tecnica direttoriale adatta ad ottenere tutto quello che vorrebbe, ma quello che vuole è sempre chiaro ed è sempre giusto e appassionante. Una direzione che è quindi passionale e intellettuale insieme: la direzione, insomma, di un musicista, che può sembrare strana o addirittura non riuscita in epoche di parcellizzazione delle competenze, ma che invece offre una prospettiva d’insieme che io, personalmente, mi sono gustato moltissimo.
Il primo concerto dell’anno, però, è stato quello di Emmanuel Pahud: dopo l’appuntamento di dicembre, che ne ha esaltato il côté barocco, l’artista in residenza di Lugano Musica è tornato ad esibirsi al Lac in una veste, diciamo così, assai poco protagonistica, cioè quella di membro dei Vents Français, i fiati francesi: che poi, ad essere pignoli, di francese sono solo tre su cinque, poiché Pahud è ginevrino e Vlatković, forse il miglior cornista del mondo, è croato. Ma quello che conta di più è che ad essere profondamente francese è il suono e lo stile: il suono che parte dall’adozione di strumenti anche fisicamente diversi, e il caso lampante è quello del fagotto, diversissimo da quello di costruzione tedesca che ormai ha invaso quasi totalmente le orchestre. Lo strumento francese ha un suono più nasale, più polveroso, meno potente e meno omogeneo: ma anche più affascinante e personale, e Gilbert Audin ne trae ottimi risultati. E lo stesso si può dire per il clarinetto vellutato e morbidissimo di Paul Meyer, così distante dai cupi, cuprei colleghi di scuola germanica, ma anche dal modo di suonare all’italiana. Il programma presentato era anzitutto molto generoso per minutaggio, e poi tutto centrato su una specie di idea di classicità: il raro Trio di Glinka vivrebbe di un’ispirazione italiana, operistica, belcantistica, ma i tre musicisti dei Vents Français hanno puntato invece su un lirismo intimo, tutto accenni e fremiti, belliniano più che donizettiano, mentre le variazioni di Beethoven su “Là ci darem la mano”, proposte in una strumentazione diversa dall’originale, sono apparse poco più di una curiosità. Una sorpresa è stato invece il Quintetto di Spohr, che è quasi un concerto per pianoforte e fiati, tanto la parte tastieristica è strabordante e di scrittura impervia: si sa, in effetti, che Chopin riteneva che Spohr non sapesse scrivere per pianoforte! Eric Le Sage non solo ha risolto benissimo tutte le difficoltà della parte, ma ha trascinato costantemente i suoi colleghi, piuttosto compassati. E dopo una brillante Tarantella di Saint-Saëns, il pezzo forte della serata si è rivelato il bellissimo Quintetto di Rimski, una pagina del 1876 che in mezz’ora di musica alterna echi beethoveniani ad un Andante di melanconia tipicamente russa, per sfociare in un finale di grande brillantezza, coronato da cadenze per ognuno dei cinque strumenti. E i Vents français hanno messo in mostra la loro souplesse e la lunga esperienza che fa sì che ognuno sappia prevedere e seguire le intenzioni dell’altro. Con un suono, lo ripeto, inconfondibile.
Ma certamente il più atteso di questi quattro concerti era quello dei sommi Wiener Philharmoniker: e a tanta aspettativa non ha corrisposto un risultato di pari livello. Inutile dire che i Wiener sono un’orchestra per tanti versi unica al mondo: per la storia che hanno alle spalle, per il fatto di non avere mai avuto un direttore musicale, sbandierando così la propria orgogliosa autonomia, per l’utilizzo di strumenti dalla meccanica diversa che, assieme all’omogeneità storica dei propri membri, hanno reso il suono, vellutato e luminoso, del tutto inconfondibile. La presenza dei Wiener nel cartellone di Lugano Musica è quindi un regalo prezioso: ma onestà vuole che si rilevi che non è stato un concerto memorabile. La parola più adatta per descriverlo è routine: perché mi è parsa evidente l’incompatibilità fra un direttore americano fin nelle midolla come Michael Tilson Thomas con l’orchestra mitteleuropea per eccellenza. Si partiva con Decoration Day di Ives, reso da Tilson Thomas con suggestive trasparenze, ma dall’orchestra con una scarsa chiarezza di dettagli che tradiva, certamente, le poche prove e la poca familiarità con questa musica: nel Terzo di Beethoven poi, il russo Igor Levit puntava tutto su una lettura smaltata e rifinita, molto classica, dalle sonorità pastellate e quasi ovattate. Una lettura magari non entusiasmante, ma con una sua coerenza, e realizzata tecnicamente benissimo: ma dall’orchestra si sentivano imprecisioni sorprendenti e una genericità di esecuzioni buona per tutti gli usi. E in effetti la bravura di Levit è emersa più nel bis, un estratto dalle Kinderszenen schumanniane di ammirevole raffinatezza timbrica. Né il discorso cambia molto se parliamo della Seconda di Brahms eseguita dopo l’intervallo: grande retorica, grande sfoggio di bel suono (ma anche qui con errori sparsi), un’idea di Brahms un po’ all’antica, che guarda più verso Bruckner che verso Beethoven, ma senza la tensione drammatica e morale delle grandi letture di tradizione, di qualche decennio fa, cui la densità sonora sembrerebbe ricondurre. E la presenza di Tilson Thomas sul podio, anche qui, mi è parsa del tutto ininfluente. Il concerto luganese, d’altronde, era il primo di quattro in tournée, per poi ripetere lo stesso programma a Vienna: non penso di essere maligno se affermo che tutte le esecuzioni tradivano, evidentemente, una preparazione insufficiente.
Nicola Cattò