MAHLER Sinfonia n. 9 in re maggiore Filarmonica della Scala, direttore Myung-whun Chung
Milano Teatro alla Scala, 11 aprile 2022
Immobili, le mani di Myung-whun Chung, prolungano in rarefatto silenzio le note finali, gli archetti dei violini sospesi sulle corde, le sezioni, tutte, concentrate su quel gesto bloccato in attesa di un segnale. Nessun rumore nella sala, nessuno spettatore che senta il desiderio di rompere la tensione crescente, quasi assordante, più dell’ora e mezza circa di musica che si è snodata, incagliata, avviluppata e distesa sino a quell’istante. Poi l’abbassarsi liberatorio delle braccia e un lento mormorio si è alzato, accompagnato dai primi, timidi applausi, seguiti da un sempre più convinto ringraziamento: del direttore ai singoli solisti, alle varie parti, del pubblico alla Filarmonica e al suo direttore e di quest’ultimo verso orchestra e pubblico insieme.
Una lunga, complessa, meditazione, quella che si è ascoltata lunedì sera alla Scala. L’ultima sinfonia completata da Gustav Mahler ha risuonato con accenti ora scabri, ora violenti, per farsi lievi, tenui, inquieti, talvolta impalpabili, ma senza un istante di smarrimento, cercando di rendere questa sorta di riassunto d’una vita, quasi un libro da leggere e rileggere, cercandovi motivo di riflessione e liberazione dalle pene del quotidiano. È tutto il mondo mahleriano che ne viene riassunto ed è la storia della sinfonia dal Settecento al primo Novecento che si dipana.
Temi parcellizzati, ma condotti con numerica attenzione, in un gioco di contrapposizioni, frasi dall’eloquente enfasi, improvvisazioni solistiche affidate alle prime parti delle varie sezioni, fragori orchestrali del tutto più contenuti rispetto al gigantismo delle precedenti sinfonie, il tutto gestito con rapporti simmetrici studiati nei più piccoli dettagli, quasi un compendio di storia della musica e della sua ricercata architettura a partire dall’epoca bachiana sino a quel inizio secolo che tante correnti ha saputo ispirare. Per alcune caratteristiche la si potrebbe avvicinare all’estremo capolavoro di Ciaikovski, anch’esso immenso affresco meditativo circa il nulla cui conduce la fine della vita umana: i timbri aspri e spezzati, le frasi di afflato melodico, i due movimenti centrali in contrapposizione e il finale, quel requiem che si dissolve in silenzio, apparentano i mondi di due tra i più tormentati compositori della seconda metà dell’Ottocento, così abili a sapersi rivolgere al passato per costruire un ponte verso il presente. Presente raccolto, in primis, da Debussy col suo linguaggio che oltre ad evocare, sa sempre spostare il punto di attenzione, concentrandolo sul mistero che avvolge il cammino dell’uomo e dei suoi oscuri rapporti con la terra.
Del capolavoro mahleriano, Chung offre una lettura tutta concentrata sul punto di arrivo, sul movimento finale quale apice cui approdare dopo aver ripercorso e riassunto la propria esistenza umana, artistica e interiore per aprire ad uno spazio altro, ultraterreno, del quale non si sa altro se non che tutto, sulla terra, finalmente tace.
Straordinario il rapporto tra direttore ed orchestra, col gesto parco e asciutto, senza bacchetta, ma fatto di soli brevi movimenti delle mani o rapide, improvvise, arcate delle braccia, quasi solo a rammentare gli snodi cruciali, lasciando al dialogo la parte preminente, dialogo tra Chung e la Filarmonica.
Il punto di domanda delle ultime battute apre non solo ad interrogarsi circa quale sia il fine cui approdano le fatiche umane, ma anche quale il significato riposto della composizione, dipanandosi in un interrogativo vitale al quale interpretazioni come quella di lunedì sera aggiungono un piccolo tassello verso il mistero e il suo lento sciogliersi.
Emanuele Amoroso