MAHLER Sinfonia n. 3 mezzosoprano Daniela Sindram Coro femminile del Teatro alla Scala, Coro di voci bianche dell’Accademia della Scala, Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Zubin Mehta
Milano, Teatro alla Scala, 14 ottobre 2020
Zubin Mehta ha da lungo tempo un rapporto molto intenso con le prime tre Sinfonie di Mahler. Le ha anche registrate più volte, con esiti indubbiamente alterni, ma consegnandoci almeno un’interpretazione di assoluto rilievo per ciascuna di esse: la Prima con la Filarmonica di Israele (Emi), la Seconda con i Wiener (Decca) e la Terza con la Filarmonica di Los Angeles (ancora Decca).
Le molteplici fonti d’ispirazione che stanno all’origine di quest’ultimo lavoro, i continui ripensamenti sulla struttura definitiva (l’epilogo doveva essere costituto da un settimo movimento, il Lied poi destinato a concludere la Quarta Sinfonia), così come i vari titoli e «impianti programmatici», pur successivamente scartati, non si elidono l’uno con l’altro: lasciano invece tracce ben visibili, si affastellano, si accumulano e convivono nel «caos organizzato» che contraddistingue la colossale e visionaria partitura. In particolare, i riferimenti al mito di Pan, alla «Gaia Scienza», al «Sogno di una notte di mezza estate», al tema cosmogonico filtrato dalla lettura del poema Genesis di Siegfried Lipiner (il mondo che si origina da una nuvola in grado di parlare e di creare), oltre naturalmente al consueto universo fiabesco della raccolta «Des Knaben Wunderhorn», chiamano l’interprete ad un’attenta riflessione che peserà sulle scelte musicali successive.
In tal senso, al Mehta dell’esecuzione scaligera qui in esame si potrà forse imputare d’aver trascurato taluni aspetti a vantaggio di altri (a latitare sono soprattutto «teatralità strumentale», marcati contrasti espressivi e lancinanti tensioni armoniche), ma il risultato complessivo non è certo privo di una sua originalità e di una sua coerenza.
Già l’inizio del primo movimento è alquanto spiazzante. Il celebre incipit degli otto corni non è propriamente «vigoroso, risoluto» come indicato dall’autore e poco dopo, l’ammonimento degli ottoni (che prefigura l’inserto nietzschiano del quarto tempo) risulta più sommesso che solenne; tuttavia, la lentezza quasi esasperante con cui le percussioni, rimaste sole, innescano il ritmo di marcia, fornisce un’importante conferma a quanto in precedenza udito: qualunque cosa accadrà, non si tratterà d’una banale lettura di routine. Il passo rimarrà poi estremamente cauto (dilatando la durata di questa prima parte a ben trentotto minuti): quello di chi esplora con circospezione una caverna ignota. Nel percorrerla, non ci s’imbatte nei grugniti e nei lamenti delle larve che si agitano nel ribollire dell’informe mondo primordiale (anche se la scrittura mahleriana questo parrebbe suggerire), quanto piuttosto in una sequela di visioni fugaci, più miraggi che vere presenze dall’ingombrante fisicità sonora. Tuttavia, il «tradimento» dell’autore è condotto con un’acribia tale da divenire, alla fine, affascinante. Sulla medesima falsariga la Sinfonia prosegue, con un candore d’intenti e una levità quasi «mendelssohniana» che ben si attagliano al secondo tempo e parzialmente al terzo, naturalmente ponendo sullo sfondo tutto ciò che va letto per antifrasi: dunque lo zampettare degli animali nel bosco è quantomai leggiadro, l’intervento «Wie aus weiter Ferne» (come da grande distanza) del corno di postiglione – come di prammatica qui sostituito dalla tromba in Re – altamente suggestivo, ma per converso perfino la spettrale citazione dal Lied «Das irdische Leben» non trasmette la benché minima inquietudine. Di qui in poi, staccatisi da terra, proseguire sarà ancora più semplice. L’originalità della lettura scaligera di Mehta risiede insomma nell’aver scovato una superiore serenità di fondo che neutralizza la greve corporeità del primo tempo, l’inquieto perdersi nel mondo vegetale e animale e quindi «semplifica» l’insorgere dell’anelito spirituale che negli ultimi tre movimenti parte dal severo richiamo nietzschiano per giungere, attraverso l’ingenuo intermezzo corale, alla visione finale; anche se tutto questo accade a prezzo di rimuovere la componente pessimistica e «lucreziana» d’una Sinfonia che è a tutti gli effetti il De rerum natura di Mahler.
Paolo Bertoli