ROSSINI Mosè R. Raimondi, B. Mihai, F. Polinelli, L. Ganci, G.S. Sala, C. Starinieri, M. Cioppi, L. Tamburrino, I. Kabatu; Orchestra e coro della Veneranda Fabbrica del Duomo, direttore Francesco Quattrocchi responsabili della messa in scena Cecilia Ligorio, Tiziano Mancini costumi Franca Squarciapino light designer Valerio Tiberi
Milano, Duomo, 11 giugno 2015
Fare musica nel Duomo di Milano è sempre un grande problema, poiché il riverbero lunghissimo rende i suoni, specie quando sono coinvolti cori e orchestre, confusi e impastati: non ha certo fatto eccezione questa singolare proposta del Mosè di Rossini (o, per meglio dire, di una parte di esso…) nel quadro delle manifestazioni legate a Expo. L’orchestra e il coro (della Veneranda Fabbrica: ovviamente un complesso assemblato per l’occasione) sembravano anche di buona qualità, ma davvero risulta difficile esprimere un giudizio in un ambiente dove una nota suonata dagli ottoni si propaga per svariati secondi! Similmente non riesco a commentare la prestazione del direttore Francesco Quattrocchi, che sembra comunque staccare tempi sensati e commisurati alle condizioni esecutive (lo si avverte nell’unica parte che non si riduce ad una sorta di grande cluster sonoro, ossia l’inizio del concertato del Finale III, “Mi manca la voce”). Due erano i punti di attrazione, sulla carta, di questa proposta: l’apparato di proiezioni luminose che sfruttano gli ampi spazi del Duomo e la presenza di Ruggero Raimondi. La parte visiva era insieme suggestiva ed ingenua: belli, senza dubbio, gli effetti che trasformavano le imponenti colonne della Cattedrale in tendaggi mossi dal vento (durante l’aria di Sinaide), bello il trascolorare di luci (anzi, di ombre…) nella scena delle tenebre, mentre ho trovato più banali tanti altri momenti, e deludente il finale ultimo, in cui l’apertura del Mar Rosso (che i tagli musicali portavano a far coincidere con “Dal tuo stellato soglio”) passava quasi inosservata. Raimondi, poi: il grande basso bolognese, che ormai si esibisce molto raramente, era in forma vocale sorprendentemente buona: l’autorità del declamato, unita a un notevole senso dello stile, era di grande spicco (“Eterno, immenso, incomprensibil Dio”), mentre altrove fa più fatica (il legato e gli abbellimenti di “Celeste man”), ma il grande artista non perde mai di vista la resa del personaggio (aiutava, certamente, il fatto che le voci dei solisti fossero amplificate). Più alterno il resto del cast, fra lo squillante Amenofi di Luciano Ganci (il migliore, in termini vocali), il tonitruante Faraone di Filippo Polinelli e la dignitosa Sinaide di Isabelle Kabatu. Accennavo, all’inizio, ai tagli: sono stati tanti e tali che io non parlerei neppure di un’esecuzione dell’opera rossiniana, ma di un’ampia selezione. Per dare un’idea, 80 minuti su circa 180 della versione integrale: mancavano intere pagine (cori, danze, l’aria di Anaide, duetti), e quelli che rimanevano erano falcidiati. Il terzo atto, per fare un esempio, iniziava dal finale, il quarto si riduceva al preludio e “Dal tuo stellato soglio”: posso capire, magari, le ragioni di queste scelte, ma ritengo sarebbe stato più corretto annunciarlo con chiarezza. E poi perché puntare alla versione parigina del Mosè (quindi il Moïse et Pharaon nella versione ritmica di Calisto Bassi) e non rifarsi invece al Mosè in Egitto napoletano, già di suo più succinto e privo di tutte le pagine poi tagliate? Segnalo, infine, con piacere che al pubblico è stata distribuita una card USB contenente un interessante documentario, di 20 minuti circa, dedicato al Duomo di Milano, ma soprattutto l’intera ripresa dell’opera, questa volta in alta definizione e con suono quasi perfetto: questo elemento, unito a una regia video piuttosto interessante (con riprese da varie telecamere, dissolvenze, primi piani) configura quasi un altro prodotto rispetto all’esperienza di fruizione dal vivo. Un dato su cui vale la pena di riflettere per il futuro e per iniziative consimili.
Nicola Cattò