MOZART Requiem K 626, Ave verum Corpus K 618, Krönungsmesse K 317 soprano Johannette Zomer contralto Bogna Bartosz tenore Jörg Dürmüller basso Klaus Mertens; Amsterdam Baroque Orchestra & Choir, direttore Ton Koopman
Genova, Teatro Carlo Felice, 24 novembre 2014
Partecipando a un concerto di Ton Koopman e della Amsterdam Baroque Orchestra, si sa bene cosa ci si può attendere: un’irresistibile vitalità espressiva, nutrita di tempi spediti e fraseggi contrastati, e un’orchestra dall’organico ridotto nel cui tessuto gli archi lasciano spazio a legni e ottoni. Se in Bach e nel repertorio barocco gli esiti sono sempre stati giustamente acclamati, per le interpretazioni mozartiane l’accoglienza è stata in qualche misura più controversa, e questo concerto per la Giovine Orchestra Genovese, interamente dedicato alla musica sacra del salisburghese, ha offerto ulteriore materiale alla riflessione, pur ricevendo dal pubblico una risposta poco meno che entusiasta.
Partiamo dalla seconda parte del programma, introdotta da uno dei capolavori assoluti del repertorio sacro mozartiano, quel magico Ave verum Corpus che accanto a brani come l’Adagio per Glassarmonica o la Fantasia per orologio meccanico rappresenta il culmine della tendenza dell’ultimo Mozart a riporre il sublime nella miniatura. Una perla purissima di serenità confidente, appena attraversata da un corrugar di fronte nella concretezza del sacrificio del Cristo e al pensiero della morte; turbamenti che però vengono trascesi dalla fede, come Koopman ha ben dimostrato nella vera “messa di voce” con cui ha risolto in afflato il brivido cromatico di “In mortis examine”, nel quale, pure, viene rasentato lo smarrimento. E più convincente ancora, appartenendo a una corda espressiva più esultante e al Mozart giovinotto, è parsa la Messa dell’incoronazione, dal carattere sublimemente profano, dove il Gloria scintillante col gran rilievo di timpani ed ottoni sembrava anticipare i cori celebrativi dell’Idomeneo, il Credo alacre e trascinante vinceva la ritrosia del “Crucifixus”, a cui pure veniva attribuito da Koopman un pallore languente, mentre dell’Agnus Dei si rivelava la vocazione alla pacificazione universale, grazie anche al canto cremoso di Johannette Zomer, magari più materna che virginale o sensuale, ma comunque libera da qualche lieve fissità notata invece nella sua prova nel Requiem.
Ecco, quanto al grande affresco incompiuto, la visione interpretativa del direttore olandese è sembrata certo ricca di personalità, nella determinazione del suo illuminismo, ma forse non altrettanto convincente, non sembrando rispondere del tutto alle perturbanti ombre presenti nel controverso capolavoro, al suo carattere eminentemente non conciliato: i tempi vivaci e i contrasti squillanti conferivano sì vigore e slancio alla partitura, rammentandone a tratti la contemporaneità col Flauto Magico (vedi il finale del Dies Irae); ma non davano conto appieno del baratro sfiorato nel ritorcersi dei bassi nell’Introitus e del basso nel Recordare, e in questa stessa pagina, dell’attonimento dell’“Ingemisco”; nel Confutatis, poi, non abbiamo colto con l’intensità che avremmo desiderato il dualismo tra minaccia di punizione e disincarnato anelito alla salvazione. Sempre ammirevole il dominio dell’articolazione e della polifonia, e anche dei volumi, dato che i contrasti dinamici non vengono mai attenuati, anzi; ma talvolta un poco più di respiro e di rubato avrebbe giovato, anche nelle parti meno profonde della partitura, come in un Benedictus addirittura un po’ pacioso. Buona la prova del quartetto vocale, per quanto dal glorioso veterano Klaus Mertens non si proietti, come dovrebbe, l’ombra di Sarastro: un prodigio di duttilità l’orchestra (nonostante un paio di piccoli incidenti di percorso, come la stecchetta della tromba all’inizio dell’Agnus Dei), e in questo senso ottima anche la prova del coro olandese.
Roberto Brusotti