WAGNER Parsifal J. Kaufmann, N. Stemme, R. Pape, C. Gerhaher, W. Koch, B. Szabó; Chor, Extrachor und Kinderchor der Bayerischen Staatsoper, Bayerisches Staatsorchester, direttore Kirill Petrenko regia Pierre Audi scene Georg Baselitz costumi Florence von Gerkan luci Urs Schönebaum
Monaco, Bayerische Staatsoper, 5 luglio 2018
Nell’analizzare la produzione della maturità di Wagner, la ricerca musicologica più recente tende a ridimensionare la centralità dell’articolata trama leitmotivica che ne innerva le opere e che rischia di ingabbiare l’analisi musicale e drammaturgica all’interno di rigide categorie formali. Essa valorizza, invece, i processi di incessante elaborazione dei vari temi e le loro interrelazioni, che si manifestano nel costante fluire dell’uno nell’altro e dall’altro, nel loro confondersi e mimetizzarsi, nel loro inabissarsi nel magma orchestrale e riaffiorarne mai identici. Una trasformazione continua, che investe aspetti diversi ma collegati: i rapporti armonici, l’ordito strumentale, perfino certe prescrizioni sceniche. Si pensi, a quest’ultimo proposito, alla studiatissima disposizione delle masse corali nei passaggi rituali del Parsifal, il cui scopo è quello di realizzare effetti timbrici e ambientali ben precisi. Sono disquisizioni dotte e complesse, indubbiamente appassionanti, ancorché ostiche, che rischiano però, in mancanza di esecuzioni rivelatrici, di rimanere confinate nella torre d’avorio degli studiosi che le elaborano; altrimenti detto: la prova del palcoscenico è necessaria affinché un brillante esercizio intellettuale non risulti fine a se stesso.
Una di queste (rare) esecuzioni rivelatrici l’ha offerta Kirill Petrenko in occasione della nuova produzione del Parsifal, con la quale si è aperto il tradizionale festival estivo della Bayerische Staatsoper. Non esitiamo a definire miracolosa la sua concertazione: per nettezza dei contorni, brillantezza dei colori, ampiezza dell’arco dinamico, inesauribile pulsare drammatico, piena e costante aderenza al testo e al dettato teatrale. Supportato da complessi corali e strumentali in stato di grazia, Petrenko accompagna e commenta il corso dell’azione con impressionante varietà di accenti e di sfumature; il controllo su ogni singolo attacco, su ogni singolo dettaglio, è ferreo. Tra i moltissimi momenti memorabili ci limitiamo a citare, ex multis, il glorioso crescendo che segna la seconda grande trasformazione scenica dell’opera (quella del terzo atto, che conduce Parsifal, Kundry e Gurnemanz attraverso la foresta fino alla sala del Graal): l’aumento dell’intensità e della tensione è regolato con una progressione prodigiosa.
Il cast è verosimilmente il migliore che si possa oggi schierare per questo titolo. In linea con il passo vivido e febbrile imposto da Petrenko (soprattutto nel secondo atto), Jonas Kaufmann cesella meno del solito: il suo Parsifal, inizialmente introverso e guardingo (ma tutt’altro che sempliciotto), si fa via via più spontaneo e risoluto a misura che procede la presa di coscienza della sua missione salvifica; i mezzi vocali sono ancora solidi e garantiscono una tenuta senza flessioni lungo tutta la recita. Lo stesso dicasi della Kundry di Nina Stemme, pur con qualche asprezza nel registro acuto, compensata da un fraseggio intenso, a tratti bruciante. Il registro grave di René Pape ha perso un po’ di smalto rispetto a qualche anno fa; la presenza scenica e l’interpretazione vocale restano però esemplari: il suo è un Gurnemanz intimo e rassicurante. La lunga militanza liederistica di Christian Gerhaher è patente nel modo in cui minia ogni sillaba: ciò gli consente di esprimere con incisività la misura della sofferenza, dell’amarezza, della frustrazione di Amfortas. Eccellente, il Klingsor subdolamente fraudolento di Wolfgang Koch; difficilmente giudicabile il Titurel di Bálint Szabó, che canta sempre fuori scena.
”Sono nato in un ordine distrutto, in un paesaggio distrutto, tra persone distrutte, in una società distrutta. Non ho voluto ristabilire un ordine. Ho visto abbastanza del cosiddetto ordine. Sono stato forzato a mettere tutto in discussione, ad essere naïve, a ricominciare di nuovo”. Così, in una vecchia intervista, il celebre pittore e scultore neo-espressionista Georg Baselitz (al secolo Hans Georg Kern, classe 1938), uno tra i massimi artisti tedeschi viventi, reclutato come scenografo per questo Parsifal. Tra le sue creazioni più note figura la serie “Eroi” (1965-1966), considerata una sorta di manifesto della sua pittura, nella quale sono raffigurati esseri umani fragili, laceri, precari, ambigui. Nel concepire le scene per la produzione in commento, Baselitz sembra proprio essersi ispirato a quel paesaggio distrutto e a questi suoi Eroi anomali, logori e disadattati. Le figure capovolte – un altro dei topos figurativi di Baselitz – rafforzano l’immagine di un’umanità disorientata. La scena del primo atto rappresenta una foresta stilizzata e cinerea, nella quale si staglia una sorta di pira, al cui interno è custodito il Graal. Identica scena – salvo qualche dettaglio marginale – la ritroviamo, sottosopra, nel terzo atto. Nel secondo atto, il castello di Klingsor viene evocato attraverso un telo bianco sul quale sono disegnati in maniera sommaria dei grossi mattoni; quando Parsifal sottrae la lancia a Klingsor il telo si affloscia, indicando così il crollo dell’edificio. Nessuna traccia del giardino incantato; le fanciulle-fiore, lungi dall’essere le creature giovani e seducenti descritte da Wagner, esibiscono corpi grotteschi, senescenti, disfatti. Manca all’appello anche la maestosa sala del Graal del primo e terzo atto. Insomma: un contesto decisamente squallido e desolato, che poteva, nondimeno, fungere da base per un Konzept interessante. Basti pensare al recente Parsifal berlinese firmato da Tcherniakov, riletto in chiave pessimistica come la deriva di una setta dedita ad un culto malato e insensato. Il regista Pierre Audi, tuttavia, non contestualizza il peculiare impianto scenico nell’ambito di una prospettiva interpretativa diversa da quella tradizionale; donde il corto circuito tra il racconto scenico e quello musicale, di talché lo spettacolo si risolve in una mera (e banale) giustapposizione dell’estetica angosciante e severa di Baselitz all’immaginario wagneriano.
Paolo di Felice