Le tre giornate di studi (21-23 ottobre) dedicate dal Conservatorio S. Pietro a Majella alla scuola pianistica napoletana del Novecento passeranno molto probabilmente nella storia degli annali della musicologia italiana come il primo tentativo di dare un volto unitario e criticamente strutturato ad una delle più ricche tradizioni pianistiche europee. Al comitato artistico va dato il merito di aver convocato per questo compito, assai impegnativo, musicologi, pianisti ed operatori culturali provenienti da generazioni e prospettive molto diverse, con il risultato di pervenire ad una notevole polifonia di contributi: ora consonanti, ora in reciproca tensione “contrappuntistica”, mai in aperta dissonanza. Particolarmente preziosa la relazione introduttiva di Tiziana Grande, che ha iniziato a disegnare alcuni concetti-chiave intorno ai quali potrebbe riassumersi la scuola napoletana: a) la condivisione di maestri comuni, b) la concezione etica della professione, c) il rigore dello studio tecnico-interpretativo nel rispetto del testo, c) il rifiuto dell’istrionismo: “non istrione, ma artista deve essere il pianista”, come Alessandro Longo amava ripetere. Sebbene il focus delle giornate fosse il Novecento, non è stato comunque possibile disgiungerlo dal decisivo impulso tardo ottocentesco di Giuseppe Martucci, Beniamino Cesi ed Alessandro Longo: di questi ultimi si sono discussi proficuamente le finalità ed i destinatari dei metodi didattici da loro pubblicati. Man mano che ci si inoltrava verso la metà del Novecento, nel corso delle relazioni si è assistito ad un avvincente racconto delle “imprese” degli straordinari e precocissimi talenti nati intorno agli anni Trenta, che nel secondo dopoguerra poco più che adolescenti vinsero a raffica i concorsi internazionali più prestigiosi: Paolo Spagnolo nelle annate 1946/47, Sergio Fiorentino nel 1947, Maria Tipo nelle edizioni 1947/48 di Ginevra e Bruxelles, Aldo Ciccolini nel 1949 a Parigi, per non parlare della precedente generazione degli anni Ottanta, con Attilio Brugnoli vincitore del Premio Rubinstein, e Vincenzo Scaramuzza insediatosi ottimamente a Buenos Aires. Impossibile inoltre dimenticare l’ascendenza pianistica napoletana di Arturo Benedetti Michelangeli, allievo del martucciano Giovanni Anfossi. Di fronte a tale messe di allori e di biografie straordinarie, esemplari per forza di volontà e slancio idealistico, forse il distacco critico di qualche relatore si è allentato, immedesimandosi nell’oggetto delle loro relazioni: fatto del tutto comprensibile, trattandosi spesso del proprio personale maestro. Tuttavia occorre riconoscere che si è inteso dare spazio anche a voci del pianismo napoletano controcorrente, decisamente sperimentale: voci esposte da Girolamo de Simone, che tra l’altro ha immaginato un’originale visione “rizomatica”, piuttosto che piramidale dell’idea di scuola. Massimo Fargnoli da parte sua ha esposto, oltre alla storia del Concorso Casella, l’ultima versione aggiornata del grande albero genealogico della scuola napoletana, dalle origini fino ai giorni nostri: albero dai rami ancora carichi di frutti: frutti che si chiamano Roberto Cominati, Stefano Bollani e Lorenzo Pone, ma non solo. Pier Paolo de Martino e Livio de Luca hanno esplorato gli aspetti organizzativi del fare musica, e le funzioni sociali dei musicisti napoletani nel primo Novecento. Impossibile riassumere tutte le relazioni, così ricche e preziose da attenderne con impazienza la pubblicazione. Tutte le giornate sono state concluse da momenti musicali contenenti rarità e novità di repertorio tratte dai pianisti-compositori trattati, e dai direttori-compositori di conservatorio, una delle più belle tradizioni dell’istituzione di S. Pietro a Majella. E così anche l’attuale direttore, Gaetano Panariello, non si è sottratto al confronto con i suoi illustri predecessori, accettando la sfida con classe ed ironia. Sul palco della sala Scarlatti sono stati chiamati musicisti di diversa caratura e generazione, dal ben noto Orazio Maione, a Paola Volpe, Francesco Caramiello ed ai ragazzi del Conservatorio di Napoli, perché così dev’essere una vera scuola: prima di tutto un comune atteggiamento dello spirito, e poi, se arriva, anche un bel medagliere da incorniciare. Si parla già della seconda edizione del convegno, e non solo. Nonostante tutto, la scuola napoletana di oggi è ancora viva, e forse più unita di ieri.
Massimiliano Génot