HALÉVY La Juive M. Sicilia, G. Kunde, M. Russomanno, I. Hotea, R. Zanellato, G. Bintner, D. Terenzi, R. Lia, L. Lo Sciuto, L. Battagion, R. Calamo; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Daniel Oren regia, scene, costumi, coreografia, luci Stefano Poda
Teatro Regio, Torino, 21 e 24 settembre 2023
Negli intenti di Mathieu Jouvin e Cristiano Sandri, rispettivamente sovrintendente e direttore artistico, la nuova stagione del Teatro Regio punta ad essere quella di un autentico rilancio dopo una transizione non facile, comunque gestita in maniera via via più convincente. La tempistica è perfetta, anche sul piano simbolico: celebrato il primo mezzo secolo di vita, il teatro si propone come una realtà che guarda al futuro con forti ambizioni. Ma poiché contano i fatti a contare, è giusto dire subito che proporre un titolo come La Juive è di per sè una credenziale di altissimo profilo, con la quale il Regio si dimostra all’altezza del compito di un grande teatro di respiro internazionale, che è quello di fare cultura, con coraggio, fuori dagli schemi. Dunque, un vero evento, per diverse ragioni. Non secondaria è quella di carattere storico-esecutivo, con riferimento alla posizione tenuta dall’Italia nel più generale contesto di rinnovato interesse da parte della musicologia e dei teatri per il grand-opéra della sua stagione d’oro(Rossini e musicisti italiani a parte), dopo un lungo periodo di sottovalutazione e emarginazione. Una rinascita che si manifestò negli ultimi decenni del secolo scorso, per poi rafforzarsi e consolidarsi, anche con il supporto di edizioni critiche e quindi di un’opportuna sensibilità filologica. In quest’ambito, l’attenzione riservata ad Halévy e alla Juive ha assunto proporzioni tali da risultare emblematica. Cosa che non stupisce, a fronte dell’originalità e della modernità della concezione musicale, nonché della capacità di attrazione che il soggetto è in grado di esercitare sui registi, aspetti che in quest’opera si presentano con un carattere distintivo rispetto ai lavori di Meyerbeer, altro naturale grande protagonista del processo. Se guardiamo all’interno dei nostri confini, il bilancio fino ad oggi è tutto sommato contenuto, con larga prevalenza del compositore tedesco. Nel volgere di trent’anni, per la prima volta nella lingua originale, si sono avuti Les Huguenots (una discutibile ripresa a Novara nel 1993 e una più accurata a Martina Franca nel 2002), Robert le Diable (Martina Franca, 2000 e Salerno, in concerto, 2012), La Juive (2005) e L’Africaine (2013) alla Fenice di Venezia, La Muette de Porticis di Auber (Bari, 2013). Per completezza, impossibile non citare la memorabile esecuzione di Le Prophète con Horne e Gedda alla Rai di Torino nel 1970. Questo il quadro d’insieme italiano della renaissance del grand-opéra in senso stretto,al quale il Regio di Torino ora offre un contributo straordinario, con una Juive in una forma inedita per l’Italia e in una produzione nuova, non importata. Infatti, Venezia aveva presentato il celebre spettacolo della Staatsoper di Vienna del 1999, il primo basato sull’edizione critica curata da Karl Leich-Galland, che aveva ripristinato l’opera nella sua veste originale. Qui una precisazione s’impone, perché la storia esecutiva della Juive, messa in rapporto al testo iniziale, è davvero singolare. Il suo debutto il 23 febbraio 1835 segnò un trionfo epocale, accompagnato peraltro dall’osservazione che la sua durata costringeva i parigini ad andare a letto troppo oltre la mezzanotte. Come riferito dalle cronache, “habiles coupures” furono praticate già dalla seconda rappresentazione, specie nel terzo dei cinque atti, con buona pace di Halévy, recepite già nella prima edizione a stampa della partitura e trasformate in prassi, con altri adattamenti nel tempo a seconda dei casi, trattandosi di opera monstre quanto a forze da mettere in campo. Così la conobbe il nostro pubblico, per mezzo secolo abbondante, almeno fino ai primi anni del ‘900, decine e decine di edizioni un po’ ovunque, tra teatri primari e minori. Ma anche in un’epoca quale quella attuale, in cui integralità e fedeltà sono concetti quasi dogmatici, La Juive nella sua ritrovata fortuna continua ad essere proposta in assetto più o meno variabile e le quattro ore richieste sembrano ancora un traguardo utopico. Rispetto a Venezia/Vienna (ma anche ad altre riprese), il teatro torinese ha fatto un notevole passo avanti, recuperando il primo duetto fra Eudoxie e Rachel, non marginale nella definizione del rapporto fra i due personaggi di donne rivali, l’incantevole Boléro della principessa e parte delle danze (mutandone un poco la collocazione), di solito sempre omesse perché d’impiccio per le regie, a discapito dell’utile comprensione dell’autentico spirito del grand-opéra. Circa ciò che è mancato, alcune scelte possono trovare qualche ragione nell’economia generale dello spettacolo (l’elaborata ricapitolazione prevista nella Sinfonia, il Coro dei Bevitori e il seguente Valzer, la ripetizione delle strette di alcuni duetti, altri sfrondamenti di dettaglio), ma almeno una, per quanto usuale, sembra meno condivisibile. Mi riferisco al coro di apertura del quinto atto, in cui il popolo di cristiani esaltati già assapora il piacere che l’attende di fronte all’imminente spettacolo degli ebrei gettati nell’acqua bollente. Una pagina musicalmente audace nella sua parossistica violenza, che entusiasmò Liszt e non lasciò indifferente Berlioz, il cui giudizio nei confronti di quest’opera fu alquanto ondivago. L’inizio resta così affidato (in modo comunque plausibile e suggestivo, va detto) alla marcia funebre del corteo di penitenti che accompagnano i condannati, non meno sorprendente e magistrale nel suo carattere modale e nella sua timbrica musorgskiana, diversamente agghiacciante dal coro che la precede. Ma sarebbe proprio il rispetto della successione di questi due momenti contrastanti, genialmente concepita da Halévy, a dare ulteriore risalto con gesto potente all’insensatezza degli opposti fanatismi religiosi che è tema fondamentale dell’opera, volutamente tenuto sul filo di un’ambiguità che induce alla riflessione. È anche per questo che è difficile condividere il rilievo, emerso anche nelle chiacchiere di corridoio in questa occasione, di una drammaturgia debole. In estrema sintesi, se c’è qualcosa che colpisce della Juive è il perfetto equilibrio con il quale un’architettura tanto vasta riesce a dare impulso e senso teatrale ai differenti piani trattati dal soggetto, da quello storico a quello privato, in un gioco di pesi e contrappesi in cui il primo avanza o arretra in funzione di ciò che occorre all’elaborazione della psicologia dei personaggi, assai complessa nel caso dell’inconciliabile conflitto umano e fideistico fra Éléazar e Brogni, di sconfinata generosità per la sola vera vittima, la smarrita e tormentata Rachel, più convenzionale ma mai veramente banale neppure nelle figure di Eudoxie e Léopold, o in quelle di contorno come Ruggiero, odiosa raffigurazione di un integralismo che ci è purtroppo familiare. Dopo una gestazione tortuosa, Scribe licenziò un libretto magnifico, che ispirò al musicista un inaudito susseguirsi di cori ebbri o feroci, di apparenti pezzi chiusi dagli imprevedibili sviluppi, di emozionanti recitativi animati o scanditi da un’orchestra sottilmente introspettiva o massiva e incalzante, di momenti d’insieme in cui una congerie di sentimenti viene spinta a climax estremi e finali d’atto da mozzare il fiato. Uno spregiudicato intreccio di passioni in una cornice spettacolareche abbagliò il pubblico del tempo. Letteratura di sangue e fango, la definirà poi un inorridito Hanslick, gettando i semi per lo svilimento futuro. E oggi sembra incredibile che a perpetuarne la memoria possa essere stata soltanto una sia pur mirabile aria.
Come si diceva, già solo per fatto conoscere questo capolavoro il Regio di Torino si è conquistato un merito che sarà ricordato. Lo sforzo profuso per offrire una produzione all’altezza delle molteplici esigenze di un’opera tanto impegnativa è stato ripagato da un esito nel suo complesso molto riuscito. Determinante è stata la presenza sul podio di Daniel Oren, forte dell’esperienza di un’esecuzione concertistica (Londra 2006) seguita da due in forma scenica (Parigi 2006 e Tel Aviv 2009). Dunque, un protagonista della rinascita della Juive, padroneggiata da capo a fondo con convinta commozione. Una lettura che dalle prime battute della Sinfonia si caratterizza per un passo spazioso e meditato, che si riproporrà con costanza allo scopo di tenere in primo piano, con lucida efficacia narrativa, la tragica solitudine di personaggi accomunati da un destino di perdita e sconfitta, in un mondo ciecamente costrittivo e oppressivo, dove agli individui è preclusa qualsiasi scelta di umanità e libertà. Più in generale, dalla scavata chiarezza del direttore hanno tratto profitto anche l’incessante mobilità del disegno musicale, la varietà delle forme e la ricchezza delle soluzioni strumentali. Halévy è orchestratore magistrale a tutto tondo, ma in quest’opera è in particolare l’uso dei fiati ad assumere una singolare valenza espressiva, spesso anche in interventi apparentemente minimali, come quelli in cui voci isolate si uniscono, rendendoli quasi interminabili, ai silenzi che seguono le rivelazioni di terribili segreti. Per Oren nella Juive non esistono dettagli e gli va dato atto di averlo dimostrato, senza pedanterie nè accademismi. Così come gli va riconosciuto di non aver ceduto a edonismi nei momenti più decorativi, resi con fuggevole leggerezza, e di aver saputo tenere ben distinto il furore dal clangore, ad esempio nella terribile stretta del trio che chiude il secondo atto, nel concertato del terzo o nelle frenetiche cadenze orchestrali. E, con infallibile sensibilità di “mestiere”, Oren ha attenuato, rispetto a quanto a volte accade di sentire, la ritmica meccanica del finale primo, mantenendone l’ossessività ma consentendo alla magnifica frase di Éléazar “O ma fille chérie” di stagliarsi con lo slancio e il pathos dovuti, trovando in Gregory Kunde un riscontro generoso. Nel mitico cast della prima assoluta, la parte del gioielliere ebreo fu tagliata su misura della sfaccettata personalità di Adolphe Nourrit (con suo attivo impulso su Halévy e Scribe), tenore capace di tenere in equilibrio diverse anime, da quella classica di Gluck o Spontini a quella dell’aggraziato e agilissimo tenore contraltino di Rossini, giungendo a lambire (e fatalmente subire) la prepotente ascesa del tenore romantico. Nella Juive il virtuosismo è lasciato alle principesche figure di Léopold e Eudoxie, mentre per Éléazar (e, per certi aspetti, per gli altri ruoli) è prevista una vocalità spianata e prevalentemente centrale, con alternanza di recitativi e vasti momenti di ariosa cantabilità, il tutto in un range di dinamiche espressive molto ampio. Il tenore statunitense non ha avuto difficoltà a recuperare nel suo background le doti di stile e di fraseggio necessarie. Peraltro, si sarebbe potuto temere che la vastità, l’eterogeneità e le caratteristiche del repertorio affrontato nella seconda fase della sua carriera avrebbero potuto farsi comunque sentire. Non va dimenticato che lo sviluppo del ruolo di Éléazar dal modello di Nourrit a quello dei tenori drammatici è un fatto storico (con esiti illustri e grandiosi), ma distorsivo. Così non è stato, perché Kunde ha esibito una voce quanto mai limpida, ferma, omogenea, flessibilissima, semplicemente perfetta nel dosaggio facile di ogni componente. Ascoltarlo mentre eseguiva con purissima emissione mista alcuni passaggi del concertato “O surprise nouvelle” del primo atto bastava a testimoniarne la proprietà stilistica. Lo stesso potrebbe dirsi dell’assorta compostezza unita a un governo del fiato da manuale con i quali ha assecondato il direttore nell’atmosfera trascendente e ferma nel tempo in cui è stata avvolta la scena della prière et cavatine del secondo atto. Quanto alla grande aria del quarto, come minimo si può dire che l’artista ha toccato punte di dolente intensità emotiva quali è raro ascoltare, con un controllo impeccabile della linea e delle dinamiche, senza alcuna concessione all’enfasi, coronando l’esecuzione con un Si bemolle saldamente proiettato. Né giustamente ha omesso (come era stato fatto invece a Venezia) la successiva cabaletta (pur senza ripeterla e con una cadenza alleggerita), senza la quale non si capisce perché Éléazar, dopo aver deciso di salvare la figlia adottiva, udite le voci dei cristiani che inneggiano alla loro morte, muti repentinamente opinione. Un’ultima notazione può riguardare la caratterizzazione del personaggio, che non è quella tipica dell’ebreo della tradizione. In linea con l’impostazione registica, Kunde raffigura un Éléazar nobile e di alta dignità oltre che austero capo spirituale, che non ostenta la propria ricchezza ma neppure la nasconde. Ne deriva la scultorea fermezza di un fraseggiare che esclude qualsiasi tratto grottesco, e che Kunde, debuttante nel ruolo, ha già dimostrato di saper affinare di recita in recita.
Mariangela Sicilia, a sua volta, si è rivelata un’ammirevole Rachel. La parte è ardua (ma quale non lo è in quest’opera?), notoriamente legata alle caratteristiche della creatrice, Marie-Cornélie Falcon, tanto che il suo nome sarà destinato a indicare uno specifico tipo vocale, in cui colore e densità di una voce centrale si uniscono a quelli di un soprano in grado di sostenere robuste accensioni. Ora, Mariangela Sicilia difficilmente potrebbe definirsi un vero falcon. Innegabilmente, i suoi mezzi, pur qualitativamente ragguardevoli, trovano dei limiti nel registro medio-grave, non di rado chiamato in causa (per esempio, nel duetto del terzo atto con Eudoxie). È altrettanto vero che la sua voce lirica ha maturato la consistenza per affrontare non solo con grande passione ma con forza di accento e vigore tutti i passaggi in cui Rachel tocca il culmine dell’esaltazione drammatica, primo fra tutti quello della sconvolgente rivelazione dell’atto terzo. Si aggiunga anche la sicurezza e lo smalto di un registro acuto svettante nelle strette e nei concertati. La parte è poi disseminata di momenti d’intimismo, tenerezza, smarrimento, in cui la cantante ha esibito doti tecniche ed espressive di tutto rispetto, con un perfetto controllo dell’emissione a tutte le altezze, suoni smorzati e rinforzati con impeccabile nitore. Senz’altro da ricordare, per le molte sottigliezze di un fraseggio cesellatissimo ma mai manierato con le quali ha reso palpabile il trepidante stato d’animo del personaggio, la delicata romance “Il va venir!”. Nell’insieme, una prova risolta con molta intelligenza musicale.
L’infelice coppia di mancati promessi sposi è costruita in modo tale da poter prendere vita solo in una dimensione di edonismo vocale. All’infedele Léopold ha risposto in modo più che sufficiente, per dolcezza del porgere ed estensione, Ioan Hotea (l’arcaicizzante sérénade del primo atto, accompagnata da due chitarre,da lui diligentemente eseguita in modo completo, è disseminata di Do acuti, per poi chiudersi con un Re). Circa Eudoxie, i trilli e le fioriture della creatrice, Julie Dorus-Gras, sono rimasti affidati alla nostra immaginazione, ma Martina Russomanno (peraltro ben padrona delle molte scale cromatiche) ha saputo non farli troppo rimpiangere, grazie alla seduttività della figura e del timbro e alla preziosa e conturbante eleganza della linea di canto.
Anche in relazione all’importanza del ruolo, meno convincente è parso Riccardo Zanellato come Brogni, che presuppone in svariati punti (su tutti, la terribile malédiction del terzo atto) una voce di pienezza e risonanze profonde eccezionali, oggi davvero rara a trovarsi. Zanellato, che sa cantare con forbita morbidezza e intensità, possiede la tinta del cardinale della clemenza, della tenerezza paterna e della supplica angosciata. Ma la raffigurazione rimane troppo parziale.
Gordon Bintner ha dato a Ruggiero una voce adeguata al suo talebano rigore. Da segnalare il vigoroso Albert di Daniele Terenzi e il non meno incisivo araldo di Rocco Lia (artista in residence del Regio Ensemble)
Con riferimento allo spettacolo di Stefano Poda si può osservare che avergli affidato La Juive si è rivelata un’idea azzeccata. Di base, si poteva contare sulla grandiosità dell’impianto che tale opera richiede (i suoi allestimenti lo sono tutti). In questo caso, una monumentale scena fissa, che sembra uscita dalla mente di un architetto razionalista, che può suggerire qualsiasi spazio, e lo fa efficacemente. Sul fondo, davanti a una parete fitta di cristi caduti, una grande croce dai profili al neon la identifica come tempio. In alto, campeggia la celebre frase lucreziana sui tanti mali a cui può indurre la religione, omaggio a Epicuro che aveva invitato l’uomo a liberarsene. Lo spunto, non c’è dubbio, è felice, perché è corretto pensare, come dice Poda, che La Juive parli di oppressione delle minoranze, in questo caso religiose, cristiani versus ebrei. Ma anche di individui contro individui, per odio puro, incoercibile. Il regista (ma era scontato) evita per fortuna il déjà vu delle attualizzazioni in chiave di antisemitismo, con un’ambientazione in un’epoca che dai sontuosi costumi appare rinascimentale. E lavora molto bene sull’avvincente plot, sviluppandolo con chiarezza (quella che occorre in un’opera pressoché sconosciuta), originalità di immagini e grande dinamismo nell’azione dei singoli come in quella di massa, alla quale contribuiscono variamente, con le figurazioni tipiche di Poda, sedici bravissimi mimi e mime pressoché onnipresenti, impegnati anche nelle danze. La caratterizzazione delpersonaggi è curata a fondo, e anche la bizzarria di un’Eudoxie dominatrice sm (tacco dodici, pantaloni in latex, corsetto e guanti neri) in fondo riabilita il comportamento del suo sposo. Ma l’estetica di Poda non avrebbe potuto rinunciare all’aspetto concettuale (o concettoso, qualcuno direbbe). Che nella fattispecie ha preso forma in un Cristo che torna sulla terra e assiste sgomento agli orrori della secolarizzazione e all’incapacità per gli individui di riconciliarsi, esplicita suggestione derivante dalla celebre parabola dostoevskiana contenuta nei Fratelli Karamazov. E un gigantesco, magnifico astrolabio sferico cala dall’alto, facendo la sua prima apparizione per accompagnare simbolicamente l’avvio delle tappe di una Passione, che procederà in parallelo alla narrazione dell’opera, fino al suo terrificante epilogo. L’idea, per quanto condotta con abilità, non ha potuto evitare appesantimenti e aprire interrogativi di cui lo spettacolo, in larga misura eloquente e tra i migliori del suo ideatore, non sentiva necessità. Qualche dissenso espresso la prima sera potrebbe aver voluto rimarcare questo limite. In ogni caso la cronaca finale è quella di un enorme consenso. Nonostante i timori legati alla durata, l’opera ha soggiogato il pubblico, che ha coperto di ovazioni la grande prova di Kunde e generosamente acclamato tutti gli altri interpreti, a cominciare da Mariangela Sicilia, non mancando di riconoscere l’autorevolezza di Oren alla guida di una concentratissima orchestra e dell’eccellente coro di Ulisse Trabacchin. Così il Regio ha vinto davvero una sfida che rimarrà nella sua storia, nonché in quella del grand-opéra in Italia. Rimane il nodo della ricostituzione di un pubblico più consapevole e capace di rispondere, in termini di presenza, a opportunità al di fuori della solita routine. Un fronte problematico, ma a compensare la pigrizia degli abbonati sta l’autentico (e competente) entusiasmo degli under 30 nell’anteprima ad essi riservata, segno che il Regio si sta muovendo nella direzione giusta.
Giorgio Rampone
Foto: Andrea Macchia