SCRIABIN Preludi op. 11 n. 11 e 16, op. 16 n. 2 e 4; Studi op. 42 n .5 e op. 2 n. 1 CHOPIN Sonata n. 2 op. 35 BEETHOVEN Sonata n.2 9 op. 106 “Hammerklavier” pianoforte Beatrice Rana
Milano, Sala Verdi, Società dei Concerti, 14 dicembre 2022
Due bis, Le Cygne di Saint-Saëns nella celebre trascrizione di Godowsky e l’Étude pour les huit doigts di Debussy, suggellavano il successo dell’atteso ritorno milanese di Beatrice Rana, ormai lanciata nelle più alte sfere della carriera internazionale, che per l’occasione ha coinvolto un pubblico in cui si intravedevano molte teste di giovani, per lo più musicisti, attirati, a mio modo di vedere, da un felice senso di identificazione.
Caratterizzato da alcuni elementi di prevedibilità — la presenza di due arcinoti capolavori della letteratura pianistica, la Sonata op. 35 di Chopin e la Sonata op. 106 di Beethoven, arcinoti e arcisuonati –, il programma procedeva secondo uno speciale sguardo retrospettivo: dal materico Scriabin, di cui quest’anno si celebra il centocinquantesimo anniversario della nascita, al visionario Chopin al profetico Beethoven del Terzo Stile, in un percorso a ritroso nel tempo, tra sottese affinità di spirito e di linguaggio. Affinità evidenti nelle relazioni tonali che, volutamente, legavano gli elementi del programma. Una prima parte che iniziava con il cupo, inquietante si bemolle minore del Preludio op. 11 n. 16 e finiva con l’insinuante, ambiguo si bemolle minore del Presto conclusivo della Sonata op. 35 di Chopin, secondo un senso di circolarità già evidente nella breve pagina in mi bemolle minore del Preludio op. 16 n. 4, che finisce come inizia; una seconda, con Beethoven, che schiariva verso la cerebrale luminosità del si bemolle maggiore, pur sempre in dialogo/opposizione con la tonalità cromatica vicina, il si maggiore o il si minore, la “tonalità nera”, così come apprendiamo dai Quaderni di Conversazione di Beethoven. Un si maggiore che avevamo già sentito nel Preludio op. 11 n. 11 di Scriabin. E poi il gioco di rifrazioni e di incastri attraverso note comuni, nel passaggio tra l’op. 11 n. 11, l’op. 16 n. 2, l’op. 42 n. 5 e l’op. 2 n. 1 di Scriabin, tutti eseguiti senza soluzione di continuità, come il passaggio do diesis minore/re bemolle maggiore che legava gli Studi di Scriabin al secondo tema movimento di apertura della Sonata op. 35.
In un’interpretazione chopiniana che complessivamente alternava imperioso gesto volitivo ad estasi e compostezza, Beatrice Rana è stata abile nel farci capire che l’enigmatico, ironico sorriso della sfinge che aveva inquietato Schumann pensando a questo Chopin, altro non era, in realtà, che il presagio dell’universo materico di Scriabin. Da cui le dinamiche variabilissime del Presto finale dell’op. 35 di Chopin, addensazioni e rarefazioni nella quale, epifanicamente, facevano capolino baluginanti schegge di melodia, che subito si inabissavano nel caos. Da notare la scelta della Rana di adottare, nel primo tempo della Sonata op.3 5 di Chopin, la soluzione della più recente edizione Ekier, nella quale il ritornello dell’esposizione non parte dal Doppio movimento, bensì dal Grave iniziale, che a tutti gli effetti ha un peso strutturale importante nel punto culminante dello sviluppo dove il tema dell’introduzione e il primo tema si sovrappongono.
Nell’Allegro di apertura di quel monumentale trionfo della logica che è la Sonata op. 106, la giovane pianista italiana operava una scelta senz’altro coraggiosa: lo stacco di velocità, pur non avvicinandosi all’impossibile 138 alla minima prescritto da Beethoven, adottava la pulsazione, in un passato abbastanza remoto tentata dal solo Schnabel con risultato non del tutto convincente sul piano del controllo, tra 126 e 132 alla minima. Il primo si bemolle basso veniva quindi preso con incrocio della mano sinistra sulla destra, ad aprire una via concertisticamente possibile a questa scelta, che rendeva il tessuto della scrittura della Sonata più trasparente, particolarmente adatto a rendere l’immagine delle “ghirlande angeliche” di cui parlava Edwin Fischer a proposito della transizione al secondo tema in sol maggiore. Anche qui la Rana, nello sviluppo del primo movimento, all’arrivo del si maggiore, si abbandonava ad un clima contemplativo che dominerà, dopo lo spettrale Scherzo. Assai vivace, nell’Adagio sostenuto. Appassionato e con molto sentimento: lungi dal rappresentare il “mausoleo della sofferenza collettiva” di cui parlava il Lenz, nella sua essenza l’Adagio si dispiegava come lungo momento estatico, in cui la timbrica doveva qualcosa a Debussy e il lirismo della sezione di transizione al secondo tema, reso ansimante dalla presenza di una sincope in parte interna, sembrava essere il momento in cui l’espressività trovava la sua dimensione più spontanea e naturale. L’interpretazione di Beatrice Rana della Sonata op. 106 culminava tuttavia nella sfrontata autorevolezza dell’Allegro risoluto finale, la Fuga, qui davvero staccato con piglio leonino secondo il metronomo di Beethoven, 144 alla semiminima. Il suo pianismo pressoché infallibile le permetteva di camminare sull’orlo dell’abisso senza tentennare un attimo, forte di un controllo mnemonico assoluto e di una stupefacente precisione digitale. Ma all’arrivo in una dinamica piano del soggetto in si minore, cancrizzante, sovrapposto ad una nuova idea cantabile in note lunghe, e del secondo soggetto in re maggiore, sempre dolce e cantabile, sezione centrale della Fuga che improvvisamente cala il discorso musicale in un clima religioso, la Rana trovava comunque modo di respirare, poeticamente, nella vertigine.
Silvia Limongelli
Crediti: Camilla Borò