ROTA Napoli Milionaria! M. Buccino, C. Costanzo, M.R. Combattelli, R. Della Sciucca, M. Miglietta, F.S. Venuti, G. Lanza, S. Sanza, R. Covatta, G. Espoisto, A. Comes, G. Dallavalle, P. Greco; Orchestra I Pomeriggi Musicali, Coro OperaLombardia, direttore James Feddeck regia Arturo Cirillo scene Dario Gessati costumi Gianluca Falaschi
Como, Teatro Sociale, 13 gennaio 2023
Napoli Milionaria! della premiata ditta Rota-De Filippo (ditta che già aveva mietuto successi in svariate pellicole cinematografiche) fu protagonista, come è noto, di uno “scandalo” operistico, perché i due sommi artisti ebbero l’ardire di proporre, nel 1977, un’opera lirica che non ruggisse in fronte al pubblico la solita lezioncina imputridita di una scuola darmstadtiana sempre più venefica e irosa, che non levasse un muro di rumori e incomunicabilità, che insomma volesse far tesoro di secoli di storia della musica, con originalità e rispetto, in due ore di partitura ricche di emozioni, di idee, di teatro come Dio comanda. Scandalo, ovviamente, tanto più che quel debutto avveniva nella Spoleto del parimenti impresentabile (per certa parte politica e musicale, che all’epoca coincideva) Menotti: e difatti quest’opera andò a fare compagnia a tanta altra musica nel baule dei reietti della storia. Oggi che quei cattivi maestri sono scomparsi dai cartelloni di teatri e sale da concerto (ma i danni che hanno lasciato sono, ahinoi, incalcolabili), possiamo tornare a valutare con animo sereno l’importanza di quest’opera: che secondo me non raggiunge le vette del Cappello di paglia di Firenze, ma che nondimeno ci va molto vicino e non merita affatto l’oblio cui è stata condannata. Delle differenze con la commedia (1945) e il film (1950) omonimi fu lo stesso Eduardo a parlare: il pubblico meno esperto avvertirà la mancanza della celeberrima battuta finale “Adda passà ‘a nuttata”, riferita certo all’attesa della guarigione della piccola Rituccia dalla malattia, ma più in generale correlata ad un ottimismo, tenue eppure presente, verso un futuro migliore. Ma quasi trent’anni dopo, Eduardo non trova più, in un’Italia piagata dal terrorismo, motivi di speranza: l’opera finisce con la morte di Amedeo, ucciso dalla polizia, ed una lamentazione straziante di Amalia, vera mater dolorosa, sul suo corpo, mentre un Gennaro sempre più spiritato continua a ripetere che “la guerra non è finita”. Lui l’aveva capito subito, vedendo la sua famiglia e il suo mondo corrotti da un benessere disonesto e che ha distrutto i valori, il senso di comunità che prima li teneva uniti: gli altri se ne renderanno conto solo con questo epilogo tragico.
Dal punto di vista musicale, la partitura di Rota fonde con mestiere squisito — in polistilismo già presente nel Cappello, eppure violentemente censurato alla prima del ’77 anche dalla stampa a lui non pregiudizialmente avversa — echi dell’opera verista, evidente nei duetti tra Amalia ed Errico, ma anche in quello tra Maria Rosaria e il soldato americano (con quell’insistito parallelo con la Butterfly!), influssi della canzone napoletana (“Villanova”), jazz, boogie-woogie e ovviamente anche musica da film. E non c’è mai un momento di debolezza, di noia: il finale, anzi, che sembra rievocare una sorta di tragedia greca mediterranea, in cui il dialetto napoletano si fa arcaico e misterioso e Gennaro diventa una sorta di Tiresia veggente, è di potenza emotiva davvero devastante.
La regia di Arturo Cirillo, per il circuito di OperaLombardia, riprende quella da lui già concepita per le recite a Martina Franca nel 2011, in perfetto equilibrio tra folclorismo partenopeo e stilizzazione, tra descrittivismo ed evocazione. Cirillo gestisce con mano leggera i movimenti dell’ampia compagnia di cantanti-attori (uno più bravo dell’altro in tal senso), nonché del coro che si posiziona all’esterno della scena fissa, la stanza della famiglia Iovine che è luogo insieme aperto e chiuso, misterioso e solare. E basta poco per mutare, in perfetta sintonia con la musica, atmosfera e clima: nel secondo atto, ad esempio, l’arrivo dei marinai americani si accompagna a un proliferare di piccole lampadine stile “luci del varietà”, mentre nel duetto tra Amalia e Errico, il semplice abbandonare lo spazio della stanza e muoversi verso la buca rievoca un numero da musical, all’americana, che nella partitura corrisponde al melodizzare enfatico di “Villanova”, la canzone in stile napoletano. E Cirillo sa valorizzare perfettamente la dimensione comica, quella grottesca, che convive nello spazio di poche battute con quella melanconica e tragica: perché in Napoli Milionaria! la felicità è sempre qualcosa di sperato o rimpianto, un’illusione mai afferrata nel presente.
James Feddeck, direttore principale dell’Orchestra dei Pomeriggi – qui in formazione parecchio ampia – bada a tenere sotto controllo le non poche difficoltà ritmiche della partitura, assicurando coesione, suono luminoso e intenso, e uno “scatto” sempre presente: viene certo assicurato un ritmo narrativo incalzante, ma a scapito, secondo me, di una flessibilità ritmica e di una leggerezza che in molti punti avrebbero giovato alla sua concertazione. Ottima, comunque, la prova dell’orchestra così come quella del coro.
Amplissimo il cast richiesto da questa partitura: ben 18 personaggi, che contribuiscono ad una dimensione corale perfettamente resa in questa produzione lombarda (quasi tutti i cantanti erano di origine campana, come è d’altronde necessario per calarsi nel testo di De Filippo). E quindi farò torto agli altri, lodando solo la deliziosa Adelaide di Giovanna Lanza e l’indolente Amedeo di Marco Miglietta in rappresentanza dei personaggi cosiddetti “minori”: certamente non si può non lodare lo squillo schietto e il bel timbro di Riccardo Della Sciucca, un Errico Settebellizze che col tempo potrà acquisire anche più “polpa” nei centri e soprattutto il Gennaro Iovine di Mariano Buccino, che conferisce al suo personaggio, nel terzo atto, una vera, toccante statura tragica. Clarissa Costanzo, nel ruolo di Amalia (scritto per una giovane Giovanna Casolla) convince pienamente, sia per l’uniformità di un timbro denso, cremoso, dal bel colore uniforme in basso come in alto, sia per la miriade di piccoli dettagli che conferisce ad un personaggio che, per la sua complessità, merita certamente di iscriversi nella galleria delle grandi figure femminili dell’opera novecentesca: un’artista da riascoltare al più presto in altri cimenti.
Una produzione, insomma, che ha reso giustizia a Eduardo e a Nino Rota: la storia può ricominciare, senza pregiudizi.
Nicola Cattò
Foto: Alessia Santambrogio