WALKER Lyric for Strings CASELLA Frammenti sinfonici da “La donna serpente” BEETHOVEN Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 Orchestra Filarmonica TRT, direttore Gianandrea Noseda
Torino, Auditorium Rai Arturo Toscanini, 10 settembre 2024
La sala dell’auditorium Rai è gremita. Il clima, quello delle grandi occasioni. Cecilia Ziano, giovane spalla della Filarmonica TRT (pregiata compagine sorta vent’anni or sono su iniziativa degli orchestrali del Regio di Torino), sale sul palco tra gli applausi calorosi di chi la riconosce e celebra quale riuscito frutto della scuola musicale torinese. Poco dopo fa il suo ingresso anche Gianandrea Noseda: lo sguardo fermo, rilassato, concentratissimo, accompagnato da una vera e propria ovazione da parte del pubblico della città subalpina, che lo conosce molto bene. Il musicista milanese, oggi direttore musicale della National Symphony Orchestra a Washington, dà l’attacco alle prime battute di Lyric for Strings del compositore americano George Walker (1922-2018), breve brano, assai eseguito negli Stati Uniti, per soli archi, che Walker scrisse nell’immediato dopoguerra. Le varie voci di questa breve composizione, che Noseda sostiene sottolineandone con fermo vigore le linee dolci, si innalzano chiare dal silenzio che segue il fragoroso applauso del pubblico. Tutto è limpido; il pubblico segue curioso questo gradito antipasto, che prelude tuttavia a pietanze ben più sapide.
Seguono infatti i caselliani Frammenti sinfonici tratti da La donna serpente, fiabesca opera in cartellone otto anni or sono proprio a Torino e proprio sotto la direzione di un Noseda allora direttore musicale del Teatro Regio. Sin da principio l’orchestra si rivela (e anzi si conferma) compagine di buonissima fattura, a partire dal festoso e fastoso avvio del primo di questi frammenti sinfonici del compositore torinese nel quale, com’è ben noto, Massimo Mila vide un importante rappresentante della cosiddetta “generazione dell’Ottanta”, accanto ai Malipiero, ai Pizzetti, Respighi ed altri ancora. Anche nel secondo e forse soprattutto nel terzo Frammento, il cui avvio è affine alla temperie di qualche episodio della ravelliana Ma mère l’oye (si ricorderà del resto che Casella abitò a Parigi entrando in contatto, tra gli altri, con lo stesso autore del Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore e con la sua musica), le atmosfere fantastiche e fiabesche sembrano in certi frangenti ipnotizzare completamente il pubblico: il fatto che in quei momenti siano pressoché venuti meno gli immancabili colpi di tosse, al solito rifilati al resto del pubblico nelle situazioni meno opportune, mi pare in fondo indicativo. Nell’ultimo di questi brani sinfonici traspare talvolta una qualche pesantezza nell’articolazione del fraseggio tra archi e ottoni, ma è un qualcosa che si perdona facilmente, anche perché Noseda è abile a riequilibrare il tutto senza far troppo accorgere della piccola falla. In ogni caso non vorrei troppo insistere su questi aspetti, non avendo alcuna vocazione a indossare i panni del gesuita secentesco a caccia di imprecisioni tutto sommato di poca importanza, se considerate nell’affresco d’insieme: mi sembra ben più rilevante sottolineare come la resa generale finisca per valorizzare al meglio questa musica, che è la musica di un infallibile forgiatore di materia sonora, restituitoci da un direttore d’orchestra che dello stesso Casella è conoscitore profondissimo, confermandosi sensibile esploratore del suo immaginario. Di più: Noseda è oggi, per quanto concerne la musica del compositore torinese, un riferimento con cui chiunque è costretto a fare i conti.
Dopodiché si cambia totalmente scenario: dal fiabesco operistico si passa a quella «apoteosi della danza», per dirla con Wagner, che è la Settima Sinfonia di Beethoven. Dall’orchestra degli anni Trenta del XX secolo si passa a quella, ancora classica, di questa celebrata opera risalente a circa centovent’anni prima. Un notevole stacco sul piano della dimensione estetica, dell’ambientazione drammatica, dell’orchestrazione e della strumentazione impiegata. Un passaggio tuttavia assai gradito al pubblico. Dirò subito che, nel complesso e nella sostanza, la Settima del compositore di Bonn viene eseguita in modo per certi aspetti inappuntabile dalla Filarmonica TRT. C’è un però, a mio avviso, ed è quello consistente nel fatto che talvolta si avverte un che, se non di freddo, vorrei dire quasi di accademico: il punto è che non sempre, mi pare, l’orchestra ha fatto tutto quello che avrebbe potuto fare in considerazione delle proprie (ampie) possibilità espressive; non sempre essa ha creduto sino in fondo alla direzione di alcune frasi, determinanti o in ogni caso funzionali alla ricostituzione dell’impianto drammaturgico dell’opera; non sempre (pur nelle differenze – va da sé – interne ai quattro movimenti che compongono questa sinfonia) si è avvertita al meglio la sottolineatura di alcune voci interne che avrebbero offerto una resa più completa, più piena. Ma nel complesso tutto funziona benissimo: personalmente ho molto apprezzato, tra le varie cose che potrebbero citarsi, la resa di quello che si potrebbe definire il momento “pastorale” del primo movimento, quando per pochi istanti sembra riproporsi l’atmosfera della Sesta Sinfonia, con l’enunciazione del secondo tema in tonalità minore e dove la gestualità di Noseda è stata talmente eloquente e funzionale al brano da far invidia alle più reputate Settime del secolo scorso. Si arriva quindi al celebre Allegretto, movimento gestito da Noseda in maniera oculata, sapientemente amalgamata, al cui proposito non possiamo che ribadire quanto scrivemmo a proposito di una Settima beethoveniana di Jordi Savall, circa tre anni or sono all’auditorium del Lingotto (qui la recensione): mutatis mutandis anche qui il celeberrimo impulso ritmico dattilo-spondeo dell’Allegretto guarda finalmente avanti e, a prescindere dall’andamento scelto, non resta seduto ad attendere di essere trainato obtorto collo, come troppo spesso si è ascoltato in esecuzioni persino reputate e celebrate. C’è poi il celebre quartetto contrappuntistico, uno dei momenti per cui, almeno per il sottoscritto, valgono le parole di Stendhal (che però non si riferiva al caso specifico): un momento, cioè, che lo scrittore francese avrebbe detto della “perfetta illusione”, vale a dire quella manciata di minuti, fossero anzi soltanto pochi istanti, per cui vale davvero la pena di andare a teatro, per cui l’ascoltatore partecipa alla rappresentazione (quale che sia la sua natura) in perfetta comunione con gli artisti sul palco. Noseda esegue questo passaggio forse con meno piglio e nettezza ritmica rispetto alle interpretazioni di Karajan, di Bernstein o, per arrivare a bacchette oggi in attività, di Thielemann e di Orozco-Estrada. Le entrate sono solidamente ritmiche al punto giusto, ma mi sono parse meno tornite e nette rispetto a quanto abbiamo potuto ascoltare da altre orchestre e da altre bacchette. Nel complesso, lo ribadisco, funziona tutto piuttosto bene e l’entusiasmo del pubblico a fine concerto non è parso – non in questo caso – soltanto il solito mero rito conclusivo, talvolta frusto, a cui ci sottoponiamo con borghesissima allure.
Marco Testa
Foto: Alessandro Bosio