CATALANI Contemplazione STRAUSS Don Juan op. 20 CIAIKOVSKI Sinfonia n. 4 in fa op. 36 Chicago Symphony Orchestra, direttore Riccardo Muti
Milano, Teatro alla Scala, 20 gennaio 2017
Il ritorno di Riccardo Muti alla Scala dopo quasi 12 anni (l’ultima apparizione risale al maggio 2005, con i Wiener) era certamente un evento la cui portata storica, e anche “mondana” era testimoniata dalla presenza di vip, politici e televisioni nel foyer (ma anche colleghi, fra cui Mehta e Chailly): doveva essere una festa, e certamente lo è stata alla fine, ma molto meno all’inizio quando il Maestro, con la sensibilità che gli è propria, ha interrotto un accenno di standing ovation e rivolto poche, commosse parole in omaggio alle persone morte nella tragedia dell’hotel abruzzese, a loro dedicando il primo brano in programma. E poi il concerto. La Chicago Symphony è sempre la favolosa macchina sonora che gli appassionati conoscono dai dischi di Reiner e Solti (per fare i due nomi maggiormente legati al complesso americano), con ottoni lucenti e impeccabili, fiati morbidissimi e archi di raggiante compattezza; ma Muti ha saputo smorzarne taluni eccessi, conferendo loro non solo — e non tanto — una cantabilità italiana, di stampo operistico, quanto un senso della misura, del rigore classico che non può che arricchire le possibilità espressive di questi favolosi musicisti. Ciò era evidente nella Quarta di Ciaikovski, che evitava l’indulgere alle vertigini di sofferenza o lacerazione che costituiscono la facile soluzione per troppi interpreti che del Grande Russo banalizzano il messaggio, in realtà derivante da contrasto fra la forma e la sua lacerazione continua (se non si è Mravinskij o Bernstein, meglio lasciare perdere…): la struttura formale c’è, ben evidente, ed è quella che Muti sottolinea fin dall’inizio, sin da quel tema il cui accompagnamento sincopato racconta di un «sogno d’amor perduto», in un mondo che ancora sembra reggere agli urti del Destino. Stupenda, poi, la «Canzona» del secondo movimento (e con un oboe, Alex Klein, da applausi), che davvero trova le proprie radici, elegiache e malinconiche, nella russkaja dushà, nell’anima russa: e se il celebre pizzicato passa con ironia, come un formicolio sottopelle, il grande finale è trattato da Muti quasi come una partitura haydniana, in cui è — lo ripeto — proprio il rispetto della forma a esaltare il contenuto. D’altronde, la favola che le interpretazioni mutiane siano sempre uguali a loro stesse è, appunto, una favola derivante da malafede o ignoranza: tornando, poi, alla prima parte del concerto, la rara Contemplazione di Catalani non aveva l’afflato tragico, quasi carnale che il Maestro le aveva conferito nella sua registrazione con l’Orchestra della Scala negli anni ’90, preferendo egli ora un distacco elegiaco, con una cura dei dettagli spasmodica (e quanta Wally, posteriore di almeno un decennio, ci si sente!), mentre il Don Juan, che sembra scritto per un’orchestra del genere e per esaltarne la vitalistica esuberanza, non aveva nulla di dimostrativo, di auto-celebrativo. C’era lo Strauss giovanile, ma anche il borghese bavarese, c’era il clima meditabondo e riflessivo dell’eroe sconfitto alternato agli impeti di gioventù: il tutto con una flessibilità ritmica e agogica ben evidente ma mai esagerata, per non parlare di un finale da brividi, che dava veramente l’effetto di un sipario che malinconicamente si chiude. Il gesto di Muti assomma in sé la precisione e la chiarezza, l’energia di un trentenne con la saggezza che gli permette, talora, di stare immobile a lungo, come nella Sinfonia del Nabucco offerta come bis, in cui con ironia e complicità si affida interamente ai suoi musicisti, i quali, non possedendo un colore tradizionalmente “verdiano”, cercano e trovano altre strade interpretative. Una serata memorabile, che ogni amante della musica, senza stupide partigianerie, si auspica sia la prima di una serie molto lunga.
Nicola Cattò
(© Silvia Lelli, Todd Rosenberg)