BRITTEN Peter Grimes Allan Clayton, Sophie Bevan, Simon Keenlyside, Clive Bayley, Jacques Imbrailo, Catherine Wyn-Rogers, Claire Presland; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Deborah Warner scene Michael Levine costumi Luis F. Carvalho
Roma, Teatro Costanzi, 13 ottobre 2024
Non sembra possibile, ma dopo la prima romana del maggio 1961 (Santini sul podio, protagonista Mirto Picchi), il massimo lavoro teatrale di Benjamin Britten non era più tornato al Costanzi (nel 2013 però s’era ascoltato in forma di concerto a Santa Cecilia), teatro che pur al compositore inglese ben più di qualche attenzione ha dedicato, soprattutto di recente e grazie alla idiomatica bacchetta di James Conlon. Ora è Michele Mariotti ad affrontare una partitura per più versi impervia come quella del Peter Grimes, forse a volersi affermare direttore e musicista non diciamo eclettico, ma capace di far proprie stagioni compositive, stilistiche, teatrali sempre diverse e sempre d’arduo cimento. Massimo quello di rileggere il Peter Grimes senza i condizionamenti d’una tradizione esecutiva strettamente anglosassone e con la ben chiara coscienza dei valori ancor vivi in una partitura che qualche segno dell’età e qualche debolezza non riesce sempre a nascondere. Precipuo quello d’una tematica morale, racchiusa in un vero apologo, che s’incentra sull’emarginazione e sulla diversità, sul dubbio e sul sospetto, all’epoca della composizione (seconda metà degli anni Quaranta) di fortissimo impatto d’opinione (come sarà di lì a poco per Il console di Gian Carlo Menotti), ma oggi da guardarsi non più come attualità, ma come momento (non commendevole) della storia della società. Altrettanto diremmo per l’affresco dei caratteri, ricco di fin troppi dettagli, della popolazione del borgo marinaro sulla costa orientale dell’Inghilterra, forse l’elemento più scontato, se non talora banale (la scena della Messa e gran parte del secondo atto), d’una vicenda che conserva ben altrove i suoi pregi. Primo fra questi la sconvolgente presenza del mare. Dall’Idomeneo all’Otello, dall’Oberon al Vascello fantasma, il mare è da secoli formidabile detonatore drammatico in musica: il mare di Britten, qui presenza dominatrice e inquietante fin dalle prime battute dell’opera, è forse il più crudele di tutti. L’affilatura color acciaio, fredda e taglientissima, delle apparenti calme; la furia ciclopica dei sommovimenti tempestosi; una voracità di vittime sacrificali, deglutite nei propri abissi e mai tali da saziar l’insondabile profondità di fanoni taglienti e latebre gastriche. Nelle ampie parti del Peter Grimes ove il mare sia protagonista, abbiamo esiti musicali fra i massimi del Novecento, precipui gli Interludi marini e la tempesta. Forse però non abbiamo detto esattamente: il mare qui è in realtà l’antagonista. Protagonista è beninteso Peter Grimes. Che vorremmo assai nobilitare dall’ uso ermeneutico sopra detto e deteriore assai. Egli è semplicemente l’eroe ifigeniaco di un mito: senza saperlo e senza volerlo, smarrito e trasandato, corroso dall’incertezza e dalla verità, in fondo da sempre vittima sacrificale d’una ignobile tribù e alla fine offertosi passivamente al mare e alla morte in esso, del tutto solo, senza resistenza, senza notizia, senza gloria. Figura a suo modo redentrice e anch’essa al vertice dei personaggi tenorili del teatro dello scorso secolo.
Ciò additato per mero bisogno di stare ai fatti, diremmo che appunto Mariotti tutto ciò ha compreso in modo personale ed eccezionale: le dinamiche estreme, le gamme spettacolari di colori, i silenzi angosciati, i cataclismi grandiosi, forse qualche lentezza, se non stasi di troppo, hanno comunque dato luogo ad una resa della partitura di Britten, cui l’indubbia italianità del direttore ha conferito volto ed espressioni d’assoluta, pregnante (e diremmo formidabile) singolarità.
Senza un attore-cantante almeno del livello di Allan Clayton, sarebbe stato difficile dar esito a quanto fin qui detto: diverso, diversissimo da Pears e da Vickers come da Heppner e da Kunde, Clayton ha esattamente fatto proprio in ogni frase, in ogni battuta, in ogni accento, quell’(anti) eroe mitico e quotidiano al tempo stesso. E l’esausto, delirante monologo finale ne è stato il sublimato culmine.
La potente e scarna regia di Deborah Warner ha costituito il terzo elemento necessario alla riuscita della produzione: la stessa regista ha dichiarato che “la povertà è un elemento essenziale qui e il villaggio di pescatori immaginato da Britten è un posto dove la vita è molto dura e pericolosa. Si affaccia sul Mare del Nord, pieno di scogli affioranti, affilati, senza porti. Non è una dolce, piccola comunità di pescatori, è una realtà stressata. Ho scelto la contemporaneità perché voglio che questo arrivi dritto a tutti. Nell’opera è facile che scene o costumi d’epoca possano indorare la pillola, sentimentalizzare la cruda realtà della povertà e del disagio. Io non lo volevo”.
Gli altri cantanti in scena s’avvalevano d’un Captain Balstrode demoniaco e insinuante come Simon Keenlyside (debuttante al Teatro dell’Opera dopo trent’anni di superba carriera!?), d’una Ellen Orford di bellissima voce e non comune bravura, nonché d’una serie di parti di fianco (sovente impegnative) a dir poco irreprensibili, tra queste comprese il coro, qui vero e non pacifico personaggio. Applausi interminabili per tutti, ovviamente in specie per Clayton e Mariotti.
Maurizio Modugno