Festival Monteverdi di Cremona, edizione 2023
16 giugno, Teatro Ponchielli: L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, Orchestra Monteverdi Festival-Cremona Antiqua, direttore Antonio Greco.
18 giugno, Chiesa di S. Agostino: Come veggiamo usarsi ne’madrigali moderni (Monteverdi, Fontana, Uccellini), Concerto Italiano, direttore Rinaldo Alessandrini.
22 giugno, Chiesa di S. Agostino: La sera del Combattimento (Monteverdi, Rossi, Castello, Marini), La Fonte Musica, direttore Michele Pasotti.
25 giugno, Chiesa di S. Agostino: Monteverdi Sacred Music, Monteverdi Choir e Consort Soloists, English Baroque Soloists, direttore John Eliot Gardiner.
Anche quest’anno in virtù del lungimirante servizio svolto da Andrea Cigni e Antonio Greco – rispettivamente sovrintendente-direttore artistico del Teatro “Ponchielli” e direttore principale del Monteverdi Festival – l’edizione 2023 si è dipanata lungo un percorso sfaccettato che, accanto alle canoniche voci #Concerti e #Opera, ha proposto proteiformi propaggini musicali come: #Monteverdincursioni; #Monteverdinight; #Moteverdiclandestino; #Monteverdidappertutto; #Residenza e #Controcorrente. Di seguito le impressioni ricevute dopo l’ascolto di tre concerti e dell’opera monteverdiana che ha inaugurato la quarantesima edizione del Festival: L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi (Venezia, 1643).
È risaputo che l’opera veneziana del Seicento – in virtù del graduale processo di razionalizzazione polifonica, svoltosi prevalentemente nella seconda metà del Cinquecento, compiutosi attraverso l’inesauribile e brulicante fucina del madrigale a più voci – sia ancora fortemente innervata dal gesto declamatorio (mutuato dalla “reviviscenza” della monodia accompagnata, discendenza mitopoietica della tragedia greca), dunque anche la Poppea di Monteverdi profuma di quella scrittura musicale votata alla poetica del testo. Nessuna sorpresa per i molti spettatori – inchiodati alle poltrone e ricettivi per ben oltre tre ore – totalmente a proprio agio con l’esiguità dei versi chiusi o gli “ariosi” di madrigalesca memoria. Una proposta pienamente convincente che ha contribuito a sdoganare il pregiudizio dei cosiddetti “melomani” d’un tempo, si direbbe. Certo! Il motivo è presto detto: la vivace e osmotica concertazione di Antonio Greco, la mimesi cangiante dell’intero cast vocale, l’ammaliante e sobria eleganza della regia di Pier Luigi Pizzi hanno regalato a Cremona uno spettacolo di sopraffina drammaturgia musicale. Il messaggio che, sia Greco sia Pizzi, sono riusciti perfettamente a rappresentare è – concedetemi il gioco di parole – la sacralità dell’amore pagàno. Etica e morale vengono ampiamente superate laddove si è disposti a perdere tutto – persino sé stessi – di fronte all’atavica sensualità che muove l’amore ancestrale, quello in grado di squarciare il petto senza che ci si accorga scientemente di ciò, poiché trovasi in istato di totale trance.
Il femminino erotismo di Poppea-Roberta Mameli rappresenta, per mezzo di un’avvenenza scenica davvero suadente e di una vocalità strepitosa, il catalizzatore di tale trance: grondante, al contempo, desiderio di appagamento amoroso e glorioso. Nerone-Federico Fiorio incarna l’esaltazione delle doti di Poppea, misurandosi in un canto preciso, duttile e spianato, tuttavia in subordine all’incontenibile verve della prossima incoronata imperatrice di Roma. Il celebre duetto che chiude il terzo e ultimo atto – «Pur ti miro, pur ti godo, pur ti stringo, pur t’annodo» – rappresenta la sintesi perfetta di quanto avvenuto in precedenza: l’affermazione di un amore così totalizzante da fare obliare ogni nefandezza umana. Anche la morte del saggio Seneca-Federico Domenico Eraldo Sacchi – convincente e vocalmente dotato – pare voluta, non dico desiderata, ma senz’altro non subìta; dunque non turba e non fa inorridire gli astanti che ne tessono l’apoteosi, se possibile, rasserenando anche gli spettatori del sublime e stoico sacrificio. Il resto del cast vocale ha ben centrato i propri ruoli: dalla superba Ottavia-Josè Maria Lo Monaco, passando per l’incrollabile Ottone-Enrico Torre, sino alla tenerissima Drusilla-Chiara Nicastro. Antonio Greco – maestro concertatore al cembalo – alla testa dell’Orchestra Monteverdi Festival-Cremona Antiqua ha scelto di mettere in scena: «il più agile manoscritto veneziano, inserendo però i ritornelli strumentali “napoletani”. […] I momenti dell’opera in cui compaiono i ritornelli strumentali sono quasi totalmente sovrapponibili tra i due manoscritti [uno veneziano rinvenuto nel 1888, l’altro napoletano scoperto nel 1929] e quasi sempre identiche risultano le linee del basso continuo». La qualità della compagine strumentale, in sostanza di accompagnamento alle voci: «lo strumentale veneziano è a tre, quello napoletano è a quattro parti. A esse mi sono permesso di aggiungere una quinta parte, per adattare la partitura alla nostra orchestra e al nostro teatro», è stata eccellente sotto tutti i profili, menzione speciale va fatta al continuo cembalo-organistico di Luigi Accardo. Il pubblico – per lo più composto da appassionati e addetti ai lavori – ha tributato i meritatissimi onori all’opera manifesto del quarantesimo Festival di Cremona (sarà poi ripresa durante la stagione 2023-2024 a Como, Pavia, Pisa e Ravenna).
Il concerto seguente, nella cornice cremonese di Sant’Agostino, ha visto protagonista d’un’indimenticabile serata – tutta votata alla produzione madrigalistica di Monteverdi (dagli esordi polifonici del Primo libro, 1587, alla drammaturgia avveniristica dell’Ottavo Libro, 1638) – il Concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini. Il programma – svolto senza soluzione di continuità, legando tra loro i madrigali affini per impianto tonale – ha permesso di ascoltare un’esemplare silloge dell’iridescente vocabolario monteverdiano. Il cuore del concerto – strutturato in tre parti canore divise da due brani puramente strumentali (Giovanni Battista Fontana e Marco Uccellini) – è stato il dolentissimo ed estenuante O Mirtillo (Quinto Libro, 1605), come a rappresentare idealmente il passaggio tra «prima prattica-seconda prattica» (stile antico e stile moderno). Non a caso la serata si è aperta con I bei legami tratto da quegli Scherzi musicali (1607), in cui Giulio Cesare Monteverdi rispose all’Artusi, reo di aver precedentemente attaccato i madrigali – in particolare Cruda Amarilli e O Mirtillo – costituenti in larga parte il Quinto Libro del fratello Claudio. Laddove il testo esprime affetti, quali prevalentemente amore-crudeltà, gioia-dolore, la musica si piega totalmente al suo volere: le peripezie di Amarilli e Mirtillo (dalla tragicommedia pastorale – a lieto fine – Il pastor fido di Giovan Battista Guarini) sono un esempio altissimo di tale nuova poetica musicale: «se vedessi qui dentro come sta il cor di questa che chiami crudelissima Amarilli». Un profluvio di durezze e ligature – che ancora oggi struggono gli ascoltatori – unitamente ai madrigali concertati del Settimo Libro (maggiormente presenti nell’impaginato) e a quelli rappresentativi dell’Ottavo hanno incantato per espressività sopraffina: voci e strumenti si sono fusi alchemicamente originando il miracolo! Alessandrini è in grado, come pochi, di far rivivere l’autentico spirito della vocalità monteverdiana. Applausi scroscianti di un pubblico gratissimo, anche in virtù dei bis concessi: il coro «Lasciate i monti, Lasciate i fonti, Ninfe vezzose e liete» dall’Orfeo e ancora O Mirtillo. Da rilevare, particolarmente nel madrigale Volgendo il ciel- Movete al mio bel son dall’Ottavo Libro, l’interpretazione sopraffina del tenore Raffaele Giordani.
Similare nell’impostazione la proposta di Michele Pasotti – alla guida del complesso La Fonte Musica, sempre in Sant’Agostino – dedicata a un’ipotetica ricostruzione della serata carnevalesca del 1626, in cui Monteverdi propose il proprio Combattimento di Tancredi e Clorinda presso Palazzo Mocenigo a Venezia. Dopo una serie di madrigali tratti dai libri IV-VI – alternati a brani strumentali di Salomone Rossi, Dario Castello e Biagio Marini – e diversi per forma e struttura, l’irruzione del «canto di genere non più visto né udito», quello del rappresentativo Combattimento: il Testo di Tasso diventa un personaggio dirimente la tenzone (metafora erotica dell’amplesso dei sessi) del cavaliere cristiano Tancredi e dell’infedele guerriera Clorinda, redenta all’ultimo respiro. Il concitato e guerresco nuovo stile di Monteverdi è preannunciato nel madrigale dell’Ottavo Libro – Hor che’el ciel e la terra e ‘l vento tace – uno dei rari testi petrarcheschi musicati da Monteverdi, nonché l’unico del Canzoniere in cui Petrarca utilizza la parola «guerra». Ci troviamo di fronte, dunque, a una forza drammaturgica molto complessa e potentemente rievocata dalla concertazione al liuto di Michele Pasotti. Famoso per le ricercatissime interpretazioni dei raffinati compositori dell’ars subtilior, quali Anton Zacara da Teramo e Antonello da Caserta, La Fonte Musica si è mostrata a proprio agio anche con la scrittura monteverdiana, dispensando una potenza vocale davvero impressionante (a tal proposito si ascolti il Vespro monteverdiano realizzato il 5 ottobre del 2022 alla Konzerthaus di Vienna). Il Testo, interpretato da Mauro Borgioni, ha ribadito le peculiari doti di un canto ben delineato e naturale. Il timbro corposo del cantante-attore è stato del tutto funzionale all’intelligibilità della recitazione musicale. Nonostante la palpabile tensione artistica della serata sia stata interrotta per un malore improvviso di uno spettatore, il risultato complessivo è stato maiuscolo. Gli ascoltatori sono stati ripagati da un bis sacro: Gloria Patri dal Laudate pueri secondo (Selva morale e spirituale di Claudio Monteverdi).
L’attesissima chiusura del Festival – domenica 25 giugno, ancora una volta in Sant’Agostino – ha celebrato la gloria di Claudio Monteverdi con uno dei massimi esegeti della sua musica, John Eliot Gardiner, alla guida dei complessi intitolati al genius loci. Un evento straordinario, sancito al mattino con la consegna della cittadinanza onoraria di Cremona al venerato maestro inglese. Quando si parla di un mostro sacro del repertorio corale dal XV al XX secolo – con particolare predilezione per autori quali Monteverdi e Bach – la cui somma arte è riconosciuta in tutto il mondo, è chiaro che l’affluenza di pubblico sia sempre altissima ed esigentissima al contempo. Nonostante Sir Gardiner vada per l’ottantina e il suo fisico asciutto e slanciato tradisca qualche comprensibile cedimento, la sua forza comunicativa, gestuale e sonora non si è intaccata, con il passar degli anni, nemmeno di una virgola. Un programma costruito attorno a emblematici brani tratti dal testamento musicale della maturità compositiva di Claudio Monteverdi – Selva morale e spirituale, data alle stampe a Venezia tra il 1640 e il 1641 – al cui centro è risuonata la postuma Messa à quattro voci da cappella (1650). Ed è risuonata in maniera completamente inedita, perché Gardiner tende a “teatralizzare” anche le partiture sacre, drammatizzandole in modo originale e personalissimo. La vocalità del Monteverdi Choir – chi non conosce quegli splendidi Vespri registrati e filmati nella Basilica di San Marco a Venezia (1989)? – è spettacolare a diversi livelli: in primis per la qualità eccellente delle potenti voci miste, sempre pastose e ricche di armonici; poi per la ricerca della spazialità vocale in relazione alla resa sonora dell’edificio sacro; infine per la gradazione dei colori vocali, cangianti sì, ma sempre con tratto deciso, marcato, poco incline alle sfumature impalpabili. Chi – come me – aveva nelle orecchie le versioni di Herreweghe, oppure di Phillips o di Christophers, giusto per citarne tre tra le più conosciute, ha ricevuto una “sonora sveglia”! La componete ritmica, in molti casi radente la sfera coreutica, unità a una turgidità muscolare olimpica sono la forza-guida della vigorosa lettura fornita da quel “padreterno” di Sir John Eliot Gardiner. Altro colpo da maestro è stata l’idea di drammatizzare il Pianto della Madonna (che è poi la parodia, il contrafactum del celeberrimo Lamento di Arianna), scindendo la linea del canto unico tra le due soliste – Silvia Frigato e Mariana Flores, accompagnate rispettivamente dai liuti di Evangelina Mascardi e Laura Monica Pustilnik – che si sono fronteggiate, trasecolando l’una nell’altra, tra altare e pulpito. Standing ovation, applausi scroscianti e infiniti hanno strappato al maestro e concittadino un bis inatteso e, manco a dirlo, spettacolare: il coro «Giove amoroso fa il Ciel pietoso nel perdonar» da Il ritorno di Ulisse in patria.
Michele Bosio