CIAIKOVSKI La tempesta. Fantasia sinfonica op. 18 RACHMANINOV L’isola dei morti. Poema sinfonico op. 29 CIAIKOVSKI Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, direttore Jader Bignamini
Auditorium Fondazione Cariplo, Milano, 5 gennaio 2017
Il programma che ha aperto il 2017 della Verdi (e che è stato clamorosamente disertato dal pubblico, probabilmente ancora in clima vacanziero) era di quelli che molto possono dire sulle condizioni dell’orchestra — da una parte — e sulla maturità di chi sale sul podio: i risultati sono stati di grande livello, benché non in tutte le componenti del cartellone, che offriva due pagine celeberrime, ossia la Quarta di Ciaikovski e L’isola dei morti di Rachmaninov, assieme ad una di ascolto meno frequente, la Fantasia sinfonica La tempesta op. 18, ancora di Ciaikovski, ispirata all’omonimo play scespiriano, e da non confondersi con la pagina dal nome simile (op. 76) legata, stavolta, al testo di Ostrovsky (e tra l’altro, in russo i titoli sono diversi: Буря la prima, Гроза la seconda). La prima metà, quella con i due pezzi «brevi», presentava evidenti affinità: l’atmosfera acquacea, la contrapposizione di una sezione tumultuosa ad una di marcato slancio lirico o sentimentale, la complessità della scrittura orchestrale. In Ciaikovski si apprezzava l’estremo equilibrio, la capacità di non perdersi in inutili dettagli mirando sempre all’essenzialità di un discorso che non cadeva né nell’enfasi melodrammatica né in una cupezza, in una brutalità fuori luogo (entrambi rischi tipici di chi si butta sulle partiture ciaikovskiane senza la dovuta maturità): l’agogica di questa Tempesta, per fare solo un esempio, indugiava davvero poco al rubato, ma la scelta si rivelava corretta e convincente. Era evidente che, dopo un inizio in cui gli interventi dei fiati e la tenuta complessiva non erano affatto nitidi come si sarebbe auspicato, Bignamini ha mirato alla compattezza della linea: e il successo non gli è mancato. Purtuttavia, le scelte compiute mi hanno fatto sospettare che al lavoro di prove e concertazione non sia stato concesso il tempo necessario: un sospetto che si è fatto certezza ascoltando L’isola dei morti, certamente eseguita con molta professionalità, perfino con bellissimi effetti presi qua e là (il «soffiato» dei clarinetti alla ripresa del Dies Irae), ma senza un’idea coerente, senza che il tradizionale suono affondato che siamo abituati a sentire in questa pagina venisse fuori, ma anche senza quella chiarezza di linea che potrebbe costituire una proposta alternativa. E Rachmaninov, sublime ingannatore e manipolatore di sentimenti, ma sempre visti dall’esterno, ha bisogno di scelte nette, oppure la maschera cade: con Ciaikovski, in cui, al contrario, tutto è visto dall’interno, affidarsi alla «forma» paga sempre. O magari è solo questione di inclinazioni personali: lo ha confermato, in effetti, una lettura della Quarta di Ciaikovski che non esito a definire memorabile. Mi pare evidente che all’esito di questa esecuzione abbia giovato un tempo di prova molto più adeguato. Bignamini vede questa Sinfonia (per la quale l’autore ha redatto un ampio programma, poi parzialmente sconfessato) come un lungo arco che copre i quattro movimenti: il primo movimento, fin dal celebre attacco di corni e fagotti, appare austero, secco, in un dolore irrigidito o filtrato dal velo della memoria, la scansione è bruciante ma prosciugata, le concessioni al sentimentalismo quasi nulle. E in questa ottica anche la “Canzona” dell’oboe nel movimento successivo perdeva ogni connotato folklorico per farsi una sorta di asciutta, eppure trafiggente memoria del passato: specchio perfetto del vorticoso pizzicato della terza parte, ironico, leggero, benissimo suonato, e che costituisce l’evoluzione perfetta di una lettura che ha un compimento quasi inevitabile nel Finale, in cui il velo della memoria sembra lacerarsi e la sofferenza ritornare ad essere vissuta in prima persona, con ansia lacerante. Non c’è, in questa splendida esecuzione, enfasi, neppure nel dolore: c’è un senso di delirio e oblio di sé, persino nel ritorno della “idea fissa” (quanto Berlioz in questo Ciaikovski!) del destino, che finalmente risuona con i clangori “della tradizione”, c’è un’urgenza bruciante nelle scale di semicrome degli archi. E quella sorta di fanfara finale, che significativamente ondeggia tra Fa minore e maggiore, non ha nulla di glorificante ma, come sempre in Ciaikovski, sembra un’onda di clangore che spazza via tutto, che affoga ogni sofferenza ma, insieme, ogni traccia di vita: un’immagine che chi ha visto il film capolavoro di quel geniaccio di Ken Russel sulla vita del compositore russo (L’altra faccia dell’amore, 1970) comprenderà plasticamente. Bignamini, dirò in conclusione, dirige a memoria: d’altronde, che abbia la “partitura nella testa”, e non “la testa nella partitura” (come disse Hans von Bülow ad un giovane Richard Strauss) è un fatto evidente. E il pubblico, pur così scarso numericamente, l’ha capito benissimo, premiando lui ed un’orchestra che, al di là di qualche veniale impiccio, mantiene una qualità media di cui come milanesi, ed italiani, dobbiamo essere fieri.
Nicola Cattò