PUCCINI Turandot A. Netrebko, C. Bosi, R. Fassi, Y. Eyvazov, R. Iniesta, A. Lavrov, M. Nardis, F. Pittari, V. Shevchenko, R. Rados; Coro e Orchestra dell’Arena di Verona, direttore Jader Bignamini maestro del coro Vito Lombardi allestimenti scenici Michele Olcese
Verona, Arena, 1° agosto 2021
Grande merito della gestione areniana di Cecilia Gasdia è aver riportato a Verona le grandi voci, che dall’anfiteatro romano da un bel po’ di anni si erano allontanate.
Ci sono volute tutta la pazienza e l’insistenza della Cecilia, il “giamburrasca della lirica” come è stata soprannominata, oltre alla sua autorevolezza, per fare risuonare di nuovo le ugole d’oro nel più grande teatro all’aperto.
Negli ultimi anni hanno fatto la loro comparsa i maggiori nomi del panorama lirico internazionale, non da ultimi i due divi per eccellenza dei nostri tempi: il tenorissimo Jonas Kaufmann, che debutta in Arena proprio quest’estate; e la superdiva Annuška, “la Netrebko”, che da qualche anno ama passare per Verona e incantare i suoi numerosissimi fan. Indimenticabile il suo Trovatore del 2019, divertente la sua passerella nella triste — causa piena pandemia — stagione areniana 2020. Generosa e altrettanto trionfale la sua presenza quest’estate per tre recite di Turandot nel temibile ruolo della Principessa di gelo, accanto al tenore Yusif Eyvazov, suo compagno sulla scena e nella vita.
La seconda recita, cui abbiamo assistito, vedeva l’anfiteatro veronese colmo fino al limite della capienza consentita (6.000 posti), tutti in visibilio per il soprano. Che non ha mancato, ancora una volta, di stupire il pubblico per il fiume di bellissima voce che elargisce con grande generosità. Una voce che emoziona all’ascolto per la potenza inusitata, la densità e cremosità del timbro, la pienezza degli armonici che le consentono di espandersi in ogni dove. Una forza della natura governata dall’istinto per il teatro e da grande padronanza tecnica. Superati senza la minima fatica i rischiosi passaggi di una tessitura che sale in progressione verso l’acuto man mano che il racconto della principessa si sviluppa. La voce, come richiesto da Puccini, si spinge con violenza metallica al Si sopra il rigo, per poi ripiombare al grave e viceversa con intervalli ampi e pericolosi per l’intonazione, che rispecchiano con vivezza impressionante la sua condizione mentale instabile. Una voce da dominatrice, che prende toni algidi, echeggiando lo squillo delle trombe, fin dal successivo attacco della contesa, per poi dividersi in due, con fraseggi insistiti al grave e all’acuto in un’opposizione che simboleggia lo sdoppiamento della sua psiche. Il ritratto di una protagonista così altera non poteva essere dipinto meglio, ma il prezzo che un’interprete deve pagare, in termini di impegno, è decisamente ai limiti delle possibilità umane, che Puccini forzò consapevolmente, assicurando alla sua creazione il carattere di un unicum.
Mai ci era capitato di ascoltare una Turandot esprimersi con questo calore vocale, che sulla carta sembra contraddire le intenzioni drammaturgiche del suo autore. La carica di femminile sensualità insita nella voce della Netrebko ha dato vita ad un ritratto inedito della principessa di gelo: una carica di passionalità a stento trattenuta, che alla fine scardina ogni gelida barriera per espandersi verso l’oggetto del suo desiderio: il coraggioso Calaf. Il suo canto non lesina smorzature, mezze voci, suoni rinforzati e continue variazioni dinamiche. Una Turandot che non si dimenticherà facilmente.
Degno di nota il Calaf del compagno Eyvazov, per nulla di routine. La voce è quello che è, non certo bella, il timbro chioccio, ma l’artista sa usarla al meglio, magari senza grande fantasia nel fraseggio, ma sempre con perfetta intonazione e giuste intenzioni. Il pubblico apprezza e gli tributa un trionfo dopo il celebre “Nessun dorma”.
Il resto del cast era del tutto all’altezza dei due protagonisti. Ruth Iniesta canta una Liù appassionata e commossa. La voce non è particolarmente grande, ma è emessa con correttezza ed è capace di espandersi negli acuti. Il suo “Tu che di gel sei cinta” avvince e, non a caso, il pubblico le tributa applausi convinti. Ottimo e assai vivace il trio delle maschere, tra cui spicca il Ping di Alexey Lavrov (bravi anche il Pong di Marcello Nardis e il Pang di Francesco Pittari), così come l’Altoum di Carlo Bosi, finalmente un imperatore che canta, che scandisce le parole e che fraseggia (non se ne poteva più dei vecchi imperatori incomprensibilmente afoni). Completa il cast le buone prove di Viktor Shevchenko come Mandarino e Riccardo Rados come Principe di Persia.
Il direttore Jader Bignamini ha cercato di tenere assieme coro e orchestra: il primo collocato sulle gradinate ai lati del palco, lontanissimo dai cantanti e dall’orchestra; la seconda con i musicisti distanziati per i protocolli sanitari. Una fatica improba: difficile poter garantire attacchi e assiemi precisi. Meglio funziona nell’accompagnamento ai momenti solistici, dove Bignamini sa garantire sempre assecondare le intenzioni dei cantanti.
Di regia e allestimento non si può davvero parlare: come per tutti gli spettacoli di questa stagione areniana, si è optato per un fondale fisso nel quale vengono proiettate, in questo caso, suggestive immagini provenienti dal Museo d’Arte Cinese ed Etnografico di Parma, capaci di ricreare il mondo fiabesco immaginato da Gozzi. Gli elementi scenografici e i costumi, recuperati evidentemente da produzioni del passato, nell’insieme funzionano.
Stefano Pagliantini
Foto: Ennevi