VERDI Aida A. Netrebko, Y. Eyvazov, R. Dal Zovo, A. Maestri, A.M. Chiuri, R. Siwek, F. Pittari, F. Maionchi; Coro e Orchestra dell’Arena di Verona, direttore Marco Armiliato regia e scene Franco Zeffirelli costumi Anna Anni
Verona, Arena, 16 luglio 2022
Non finisce di stupire Anna Netrebko, il più conteso soprano dei nostri giorni, diva indiscussa, e negli ultimi tempi anche assai discussa (si vedano le sue posizioni non chiarissime sulla guerra di Putin all’Ucraina). Con la sua interpretazione di Aida all’Arena di Verona (tre le recite che la vedono protagonista) ha toccato un altro dei suoi vertici interpretativi, mostrandosi in forma ancora smagliante, con il consueto colore caldo e ambrato della sua voce, ricchissima di armonici e capace di avvolgere l’immensa cavea areniana. Quando è in scena catalizza l’attenzione del pubblico, magnetica è la sua presenza sia per la recitazione sempre composta ma di grande efficacia, incantatorio il modo di porgere e compiuto il ritratto del personaggio. Dipinto — è il caso di dirlo, grazie ad una voce di colore tizianesco — con un’infinità di gradazioni, dagli accenti più robusti e perentori agli eterei pianissimi (il terzo atto è un momento davvero da ricordare, in ispecie l’aria “O cieli azzurri”, chiuso con il do acuto “dolce” e filato come prescritto da Verdi; e altrettanto memorabile il duetto finale dell’opera). Ne è risultato un ritratto sfaccettato e a tutto tondo dell’eroina verdiana, molto più matura e interessante rispetto al primo cimento salisburghese e forsanche alla recita napoletana. Il controllo del fiato è ottimale e migliorata è la gestione del registro grave, che le permette suoni densi, ma mai debordanti.
Accanto a lei il tenore azero Yusif Eyvazov, suo compagno sulla scena e nella vita, da lei imposto sulle scene di mezzo mondo: un artista serio e preparato, tecnicamente irreprensibile, dalla voce robusta e di buono squillo, cui fa difetto la qualità del timbro, assai asciutto e talvolta nasale. C’è però da dire che è stato in grado di risolvere con sicurezza la sua difficile parte a cominciare dalla temibile aria di esordio, la celebre “Celeste Aida”, nella quale è riuscito a fare sfoggio di un diminuendo sul si bemolle conclusivo, assecondando così il “pianissimo morendo” prescritto da Verdi. Risulta poi convincente nel resto della sua parte, tratteggiando un eroe introverso e non disposto a scendere a patti. Ammirevole infine il tentativo di fondere la sua voce con quella ben altrimenti fascinosa di Netrebko nel sublime finale dell’opera.
Purtroppo non alla stessa altezza i due altri protagonisti dell’opera: l’Amneris di Anna Maria Chiuri, apparsa non in gran forma e con un registro acuto faticoso, è riuscita a venire a capo della parte in virtù della sua grande esperienza nel ruolo e mascherando i suoi attuali limiti con una recitazione spesso enfatica — più da Azucena che da figlia di Faraoni. Non sono mancati momenti convincenti, specialmente nel duetto con Aida nel quale ha saputo essere melliflua e allo stesso tempo diabolica, mentre più in affanno è apparsa nel quarto atto.
Anche Ambrogio Maestri è oggi in condizioni non ottimali: già lo scorso anno, sempre in Arena con Muti alla direzione, ci era sembrato in difficoltà. Ora la voce è ancora più in affanno nel registro acuto, fisso e faticoso: peccato perché in certi momenti il timbro sonoro e la dizione sembrerebbero quelli giusti per la parte del re etiope. Si aggiungano le evidenti difficoltà nel muoversi in scena legate a problemi fisici che ne hanno minato le regalità del ruolo.
Ottimi invece tutti i comprimari: il basso polacco Rafał Siwek nella parte di Ramfis, Romano Dal Zovo in quella del Re, la sacerdotessa di Francesca Maionchi e il messaggero di Francesco Pittari.
A reggere le fila di tutto l’immenso apparato areniano, orchestra coro cantanti, la bacchetta esperta di Marco Armiliato, uno dei direttori italiani più presenti e attivi, soprattutto in ambito operistico, nei maggiori teatri internazionali, da Vienna a New York, da Salisburgo a Berlino, Monaco, Parigi e Madrid, con i maggiori cantanti di oggi, da cui è particolarmente amato. A lui si deve una direzione incalzante ma sempre attenta, per quanto possibile nello spazio areniano, ai dettagli. Gli strumentisti dell’orchestra sono parsi in forma davvero smagliante, messi in luce da un adeguato sistema di amplificazione, e i cantati si sono affidati alla bacchetta di un direttore che conosce come pochi i segreti del canto. Qualche sbavature negli insiemi e negli attacchi del coro non hanno inficiato una prova di ottimo livello.
Della regia, una ripresa dell’allestimento di Franco Zeffirelli del 2002, c’è poco da dire se non che è ancora capace di incantare il pubblico areniano con la proposta di un Egitto aureo e con i multicolori e preziosi tessuti impiegati. Il regista fiorentino abbonda, secondo il suo consueto marchio di fabbrica, in un dispendio di costumi, insegne, ori, stendarci colorati e un profluvio di comparse, per dare vita ad un Egitto rutilante e di fantasia, dominato dall’immensa piramide dorata ruotante, circondata da quattro idoli colossali e da 14 sfingi, realizzata con tubi di metallo dorato, lamine di rame e d’argento. Elemento di grande impatto scenico, che ha l’unico limite di ridurre lo spazio del palcoscenico e di “schiacciare” sul proscenio l’azione. Tuttavia la suggestione coloristica, le sapienti luci proiettate sulla cavea retrostante e il colpo d’occhio d’insieme hanno ancora un potere incantatorio sul pubblico.
Stefano Pagliantini