VERDI Attila I. Abdrazakov, G. Petean, S. Hernández, F.Sartori, F. Pittari, G. Buratto; Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Davide Livermore scene Giò Forma costumi Gianluca Falaschi luci Antonio Castro video D-WOK
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2018
Forse, come si è detto da tante parti e come lo stesso Riccardo Chailly ha parzialmente ammesso, il titolo scelto non era “da sette dicembre”; ma tutto il resto sì, contribuendo a definire una delle inaugurazioni complessivamente più felici degli ultimi anni. Non è questo il luogo per stabilire l’effettivo valore di Attila, che alla Scala ha goduto di una storia esecutiva molto fortunata (basti ripensare alle recite del ’75 con la mitica coppia Ghiaurov-Cappuccilli o a quelle dirette da Muti nel ’91, pur accolte con molti contrasti alla prima), ma è indubbio che tutti i protagonisti coinvolti in questa inaugurazione abbiano difeso la causa dell’opera verdiana con competenza e passione, esaltandone i pregi e minimizzandone le debolezze. Al suo primo incontro con la partitura, il Maestro Chailly ha cercato di smorzare l’empito cabalettistico, di rifinire e sfumare, respirando con i cantanti e cercando sempre di conferire alla parola il suo peso teatrale: tutto molto bello, certamente, ma spesso nella cura del dettaglio si perdeva di vista l’effetto complessivo del brano, specie nelle pagine teatralmente o musicalmente più deboli. Il grande concertato del primo atto aveva un respiro epico, nobile davvero affascinante ma, al contrario, i cantabili di alcune arie, o anche il terzetto-quartetto finale avrebbero guadagnato qualcosa da un ritmo più serrato. Quanto alle annunciatissime modifiche testuali, se la sostituzione della romanza del terz’atto per Foresto (da “Che non avrebbe il misero” a “Oh, dolore”) ha permesso di ascoltare un pezzo certamente piacevole, ma non superiore all’originale (ma Sartori qui ha offerto il vertice della propria serata), le cinque battute composte da Rossini e inserite prima del terzetto finale (ascoltabili, nel loro originale pianistico, nell’integrale Naxos di Alessandro Marangoni) si sono rivelate insospettabilmente efficaci nel creare un clima di sospensione, quasi un momento di arresto prima della tragedia finale.
Da Davide Livermore, devo dire, mi aspettavo qualcosa di più: il regista torinese, che nell’ultimo anno ha prodotto alla Scala un meraviglioso Tamerlano e un Don Pasquale diseguale ma a sprazzi molto poetico, si è secondo me accodato alla linea degli spettacoloni “da sette dicembre” visti negli ultimi anni — e penso alla Butterfly di Hernanis e allo Chénier di Martone (la Giovanna d’Arco fece storia a sé: e infatti Chailly non ne fu soddisfatto…) — ossia allestimenti sontuosi, teatralmente efficaci, curati fin nel minimo dettaglio, grazie anche a un budget che si intuisce generoso, ma alla fin fine poco incisivi e ancor meno rivelatori. Certo, Livermore ha una marcia in più dei citati colleghi: l’ambientazione in un primo Novecento distopico funziona benissimo, l’uso di proiezioni video e digiwall si inserisce con efficacia, le luci e le scene — col loro dominante colore cinereo — sono stupende, ma alla fin fine è un Attila tradizionale in vesti apparentemente nuove. Uno spettacolo che sembra magari meno stimolante per l’appassionato frequentatore del teatro d’opera, ma che è certamente ideale per chi ha seguito l’opera in diretta in tutto il mondo, e che certamente può fare scoccare la scintilla per questo meraviglioso genere artistico: la festa del secondo atto, immersa in un clima fra il peplum e Tarantino, con echi dalla regia del Ciro in Babilonia dello stesso Livermore, era certamente qualcosa che solo un grande artista sa realizzare. Livermore, infine, ha saputo far recitare benissimo tutte le masse e i protagonisti, alla prese — come è noto — con parti vocalmente ispide: il ruolo più difficile, quello di Odabella, è stato affidato a Saioa Hernández, che ho avuto di apprezzare molto come Gioconda e Wally a Piacenza. Ma, si sa, la Scala e il sette dicembre sono altra cosa: scontata una certa tensione nell’aria di esordio, il soprano spagnolo si è imposta per la dovizia dei mezzi, l’incisività dell’accento e la bontà di un canto sempre intonato e squillante, anche se i melismi del “fuggente nuvolo” non sono certo la sua tazza di tè, anche senza dover riandare con la memoria alla miracolosa incisione della sua insegnante, la compianta Montserrat Caballé. George Petean ha esattamente la caratura vocale e l’espansione in acuto che il ruolo di Ezio esige (ma avrebbe fatto meglio a evitare il Si bemolle di “cappuccillesca” memoria…), però anche la stessa genericità espressiva di Giorgio Zancanaro, suo maestro e già Ezio in questo teatro con Muti. Di Fabio Sartori si loderanno lo squillo in acuto e la capacità di sfumare l’emissione, ma la linea appare spesso frammentata e la dizione confusa, mentre l’attesa prova di Ildar Abdrazakov non ha per nulla deluso le attese: personalità debordante, voce generosa e omogenea (forse un po’ debole in basso: ma la tessitura di Attila non batte in quelle zone del pentagramma), carisma che nasce sempre dal fatto musicale. La sua grande aria è stata un momento di grandissimo canto e grandissimo teatro, per il fraseggio rifinito e sfumato e l’impeto generoso della cabaletta: senza dubbio il trionfatore della serata.
Le cronache registrano, infine, i quasi quattro minuti di applausi all’inizio rivolti (non senza evidenti sottintesi anti-governativi) al presidente Mattarella e il quarto d’ora finale di ovazioni, frammiste a sparuti ululati contro Livermore e il suo team (10 persone!), quasi inevitabili nella serata di Sant’Ambrogio: dove la Scala ha fatto capire il senso di un mito che si rinnova ogni dicembre, ogni stagione.
Nicola Cattò