Il trionfo di Meli e Micheletti nell’Otello veneziano

VERDI Otello F. Meli, L. Micheletti, F. Marsiglia, E. Cesari, F. Milanese, W. Corrò, A. Casagrande, K. Son, A. Malavasi; Orchestra e Coro del Teatro La Fenice direttore Myung-Whun Chung maestro del coro Alfonso Caiani Piccoli Cantori Veneziani, maestro del coro voci bianche Diana D’Alessio regia Fabio Ceresa scene Massimo Checchetto costumi Claudia Pernigotti light designer Fabio Barettin video designer Sergio Metalli movimenti coreografici Mattia Agatiello

Venezia, Teatro La Fenice, 26 novembre 2024

Per l’apertura della stagione 2024-2025 il Teatro veneziano ritorna al capolavoro verdiano su libretto di Arrigo Boito, che già aveva inaugurato la stagione 2012/2013. Di nuovo Myung-Whum Chung, allora alle prese con il dittico Otello-Tristan und Isolde per celebrare il bicentenario della nascita dei due sommi Verdi e Wagner.

Otello rappresenta, nel teatro di Verdi, il punto d’approdo di un percorso tutto personale, che dall’idealismo risorgimentale e degli eroi romantici degli esordi conduce, per gradi, a scandagliare sempre più a fondo gli abissi dell’animo umano, svelandone gli aspetti più riposti. Il soggetto shakespeariano si presenta come un dramma psicologico, nel quale l’azione è mossa da passioni assolute quanto devastanti, il cui esito è la rovinosa distruzione dei personaggi: l’odio e il cinismo di Jago, l’innocenza di Desdemona, la gelosia di Otello che porta a un lento disfacimento l’eroe valoroso di mille battaglie.

Per caratterizzare i personaggi e restituirne gli stati d’animo mutevoli e i moti psicologici profondi, Verdi plasma uno stile vocale nuovo e appropriato, continuamente oscillante tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza: l’effusione lirica di Desdemona contrapposta al canto declamato di Otello, le linee cromatiche che dipingono la malvagità sottile di Jago, il cromatismo che si insinua nel canto di Otello come il veleno del dubbio che lo conduce al delirio. Una lotta tra bene e male che attraversa i quattro atti fino alla catastrofe finale.

Il direttore coreano affronta la partitura mostrando una piena adesione allo spirito di questo lavoro verdiano e imprimendo alla sua direzione un vigore e una drammaticità in parte assenti nelle precedenti prove veneziane, tendendo l’arco drammatico dell’opera in un’unica grande campata. Una sottile e strisciante ansietà che segnava come un filo rosso i diversi momenti dell’opera, da quelli più concitati a quelli lirici, come il duetto finale del primo atto. Senza timore di ingrossare e “annerire” colori e dinamiche orchestrali, talvolta con qualche eccesso di sonorità che sembrava voluto per dare palpabile corposità al ribollimento delle passioni agite sulla scena.

Quest’ultima è stata pensata dal regista Fabio Ceresa e dallo scenografo Massimo Checchetto come uno spazio fisso diviso in due sezioni da un’imponente trifora gotica, come fosse la facciata di un sontuoso palazzo veneziano, rivestita di oro luccicate, punteggiata da pietre preziose e scandita da tre dipinti di ispirazione sacra. Questi all’occorrenza si aprivano per lasciare spazio alla volta celeste o al mare di Cipro, riprodotti attraverso proiezioni luminose ispirate ai mosaici bizantineggianti. Una soluzione scenica funzionale alla vicenda che si è sviluppata in maniera lineare non senza qualche eccesso di sfarzo di zeffirelliana memoria (i lussureggianti costumi dorati) e con qualche “stonatura” tra la realistica rappresentazione del palazzo e il mondo favolistico (quasi luzzatiano) dello sfondo marino e celeste. A dare corpo alla tremenda tenzone tra malvagità e bontà il regista ha introdotto un gruppo di mimi vestiti di scuro per le forze negative e di figure angeliche, con tanto di ali, che affiancavano Desdemona. Un uomo con criniera aurea simboleggiava il leone di San Marco. In verità presenze pleonastiche, considerando quanto il motivo del sottile e inquietante serpeggiare del male realizzato da Verdi in orchestra e con le voci non abbia bisogno di essere amplificato mediante la sua rappresentazione fisica. Tanto più disponendo di un cantante-attore di eccezionale levatura come il baritono Luca Micheletti nei panni di Jago, vero perno dell’azione, di cui ha offerto un ritratto magistrale: per una recitazione di sottile perfidia, di insinuante e lucida malvagità (memorabile il suo “Credo in un Dio crudel”), senza alcun eccesso (quelli che talvolta inficiano alcune sue prestazioni); e per una resa vocale perfetta, sia negli affondi, sia negli accenti sussurrati, un fraseggio mobilissimo e una grande fantasia di interprete.

Al cospetto di tale Jago, Otello abbandona i panni del generale dell’Armata Veneta e diventa figura inerme nelle mani del suo burattinaio. Francesco Meli, che debuttava in un ruolo tanto impegnativo, ha sfruttato in chiave drammaturgica la sua vocalità più “fragile” rispetto agli Otello di tradizione. Il timbro chiaro e il limitato squillo all’acuto (l’“Esultate” iniziale delineava da subito la debolezza dell’uomo, non certo l’eroe vincitore) ne hanno fatto un personaggio affatto diverso da quello cui siamo abituati: vulnerabile, progressivamente sempre più esacerbato dal dubbio e dalla gelosia fino al crollo finale. Meli arriva preparatissimo e, grazie ad una voce di volume considerevole e di una dizione scandita e sempre attenta alla parola, supera le oggettive difficoltà della parte, offrendo dei momenti di grande suggestione nel duetto del primo atto, nel macerato “Dio, mi potevi scagliar” e nel finale, dove l’uomo accecato e privo di lucidità arriva al gesto estremo, soffocando Desdemona e poi, appresa la verità, togliendosi la vita.

Sinceramente non si è capita la scelta di affidare la parte di Desdemona ad una voce come quella della sudcoreana Karah Son da timbro opaco, debole nel registro centrale e grave, e inficiata da un fastidioso vibrato stretto. Si riscatta parzialmente nel quarto atto dove sembra più coinvolta e canta discretamente la “Canzone del salice” e l’“Ave Maria” (però gli acuti sono filiformi e fastidiosamente vibrati).

Ben assortito il resto della compagnia a cominciare dall’Emilia di Anna Malavasi, dal Rodrigo di Emilio Casari, Francesco Milanese nella parte di Lodovico, William Corrò come Montano e Antonio Casagrande come araldo. Ingessato e vocalmente in difficoltà Francesco Marsiglia come Cassio. Di spicco la prova del coro diretto da Alfonso Caiani e discreti i Piccoli Cantori Veneziani.

Successo entusiastico per tutti gli interpreti, in particolare per il direttore, e i due protagonisti maschili, Meli e Micheletti.

Stefano Pagliantini

Foto: Michele Crosera

Data di pubblicazione: 1 Dicembre 2024

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