VERDI Simon Boccanegra L. Salsi, A. Anger, R. De Candia, E. Buratto, A. Pellegrini, C. Castronovo, H. Guo, L.L. Perešivana; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Lorenzo Viotti regia Daniele Abbado scene Daniele Abbado e Angelo Linzalata costumi Nanà Cecchi
Milano, Teatro alla Scala, 11 febbraio 2024
Questo Boccanegra è passato a livello comunicativo un po’ in sordina, dopo il grande hype (come si dice ora…) suscitato dai due titoli precedenti (Don Carlo e Medée), e in attesa del Tell di aprile; inoltre, dopo il miticissimo spettacolo Abbado-Strehler, occorreva cercare di rialzare le sorti del titolo verdiano in Scala, che la regia di Tiezzi, proposta tra il 2010 e il 2018, non aveva certo sostenuto in maniera convincente. Ma c’è sempre qualcosa di peggio: ossia, quello che ci ha proposto Daniele Abbado (tanto nomini…), per il quale è difficile spendere parole, a differenza di quelle da lui riversate abbondantemente nel programma di sala. La consueta scena squadrata e grigia buona per tutti gli usi (una sorta di cantiere, pareva), qua e là aperto sul fondo dai doverosi, ma ben poco incisivi, riferimenti marittimi; costumi di varia epoca (si sa, la vicenda atemporale, etc etc) ma alternanti tra Tre e Ottocento; una recitazione buona per tutti gli usi e persino, come qualche collega ha giustamente notato, gli sbandieramenti un po’ parrocchiali degni di una Wallmann. Uno spettacolo brutto, piatto e senza idee.
Lorenzo Viotti, invece, di idee ne aveva, e chiarissime; che poi fossero condivisibili, è altro discorso. Un Boccanegra, il suo, delibato in una lentezza quasi catatonica, che certo non favoriva i cantanti (cui neppure giovavano certi improvvisi strappi, come nella cabaletta del duetto Maria-Boccanegra) ma che, ad esempio nel terzo atto, produceva suggestivi effetti drammaturgici. Il problema è che la drammaturgia dell’opera, la cui tinta uniformemente cupa è sempre stato il principale capo d’accusa, non può essere risolta tutta in questo modo: ne scapitavano soprattutto il Prologo e il primo atto, laddove dopo l’intervallo tutto acquistava una dimensione più chiara e suggestiva. Sarebbe ingiusto negare a Viotti talento e competenza; ma anche tacere il fatto che il suo Boccanegra è ancora assai immaturo.
Al contrario, ogni volta che si ascolta Luca Salsi si ha davanti a sé un artista sempre più maturo e consapevole: non è solo la vocalità, dal bellissimo colore sempre piegato ad uno scavo espressivo minuzioso eppure sempre diretto, emotivamente coinvolgente. Quello che si ammira in Salsi è la capacità di ripensare le proprie certezze, di far tesoro della lezione dei grandi Boccanegra del passato per costruire un personaggio tutto suo, sfaccettato, potentemente chiaroscurato e che, nel finale, assurge a grandezze storiche. Censurabile il basso estone Ain Anger: già allontanato dal Don Carlo inaugurale, ha qui messo in mostra una vocalità incerta, gutturale, corta in alto e dalla dizione ostrogota.
Charles Castronovo otelleggia un po’ troppo nella serenata d’entrata (forse per affinità con Tamagno, primo Adorno della versione rivista e, come ognun sa, primo Otello), affrontata alla garibaldina, ma poi migliora (come tutti, va detto) nel corso della serata: non è certo un Gabriele Adorno ideale, ma la professionalità non si discute. Eleonora Buratto non sembra nella forma migliore, ma è proprio in condizioni come queste che si ammirano ancora di più la serietà e la tecnica di un’artista come lei: la voce, seppure meno rigogliosa di altre occasioni, è sempre omogenea, sia in acuti ben squillanti che in gravi giustamente risuonanti, che l’accento ravviva con infallibile senso teatrale. Il modello sommo di Mirella Freni – ravvisabile anche in certi “aggiustamenti” di tradizione, specie nelle prese di fiato, nella scomodissima aria d’entrata – è lì dietro le spalle, e complimento migliore non saprei rivolgere: peccato solo per l’assenza del trillo sulla parola “pace”, nella scena del Gran Consiglio, che non è solo una belluria accessoria ma fondamentale per dare il senso del sublime concertato. Roberto De Candia, infine, dona una dimensione nuova e personale a Paolo, ambivalente tra il semplice villain della versione del ’57 e una sorta di Jago di quella dell’81 (non è inutile notare come i tremendi accordi dell’orchestra prima del momento dell’automaledizione anticipino il “Credo” dell’Otello…), con un accento mobilissimo e sferzante. Sempre eccellente il coro scaligero, e apprezzabile anche l’orchestra, forse meno a fuoco del solito: e successo molto caloroso più alla fine che in corso d’opera.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala