MASSENET Suite n. 5 “Scènes napolitaines” MELCHIORRE Microliti per due voci e orchestra (prima esecuzione assoluta) CIAIKOVSKI Capriccio italiano op. 45 ROSSELLINI Canti del Golfo di Napoli, Rapsodia ALFANO Suite romantica soprano Joo Cho basso Nicholas Isherwood Orchestra Sinfonica di Milano, direttore Giuseppe Grazioli
Auditorium di Milano, 19 aprile 2024
Nel numero di aprile di MUSICA, Maurizio Modugno ha descritto ampiamente il risultato eccezionale dell’incisione Naxos, da poco uscita, che Giuseppe Grazioli e l’Orchestra Sinfonica di Milano hanno dedicato alla musica di Alfano, sul quale ancora oggi pesa la damnatio memoriae di essere “solo” il completatore della Turandot di Puccini (spesso senza ricordare il comportamento meschino che Toscanini tenne verso di lui, e che diede origine a quell’aborto noto come “Alfano 2”, ossia il finale orridamente sventrato dai tagli del compositore parmense: ben altra cosa è quanto aveva scritto davvero Alfano, un finale cui finalmente, due anni fa, Antonio Pappano ha reso giustizia nella sua splendida incisione Warner). Certo, le sue due Sinfonie sono partiture di inutile lungaggine e di un “peso” che non corrisponde alla ricchezza delle idee; certo, Risurrezione non riesce davvero a esprimersi con un linguaggio personale (tutt’altro discorso per la scintillante Sakuntala), ma le pagine contenute nel CD Naxos rivelano un Alfano che unisce la conoscenza della musica dei suoi contemporanei a quella della grande produzione europea: la Suite romantica, eseguita nel concerto di cui diamo conto, è del 1909, l’anno di Italia di Casella (a cui molto la lega), pochi anni dopo la grande stagione di poemi sinfonici straussiani (Sinfonia delle Alpi esclusa, ovviamente) e ben prima dei capolavori di Respighi. In un Auditorium di Milano stranamente disertato dal pubblico (effetto Salone del Mobile?), Giuseppe Grazioli ha confermato l’eccellenza della sua esecuzione: e anzi la dimensione “dal vivo” le ha conferito un calore, una brillantezza assolutamente trascinanti. Che non vanno mai a scapito né dell’equilibrio della concertazione (Grazioli ha il dominio della frase larga, non si perde mai in dettagli fini a sé stessi), perché la musica in questa lettura respira sempre (penso alla bellezza del “duetto” tra pianoforte e corno inglese) e che riesce a compensare, in sede esecutiva, anche il pannello più debole della Suite, quel quarto movimento dove si scatenano i sette (sette!) percussionisti e viene citato persino “Tu scendi dalle stelle”, in un’atmosfera non immemore del Saltarello dell’Italiana di Mendelssohn. Certamente “italiano” è il senso del canto, in un’ampia curvatura melodica che è ricca di nostalgia e di pura bellezza timbrica.
Il concerto, dal titolo “Viaggio in Italia”, era diviso tra l’evocazione interna ed esterna del sentire italiano: la prima era garantita da Alfano, appunto, e da un assai debole brano di Renzo Rossellini, il fratello del regista, dal titolo Canti del Golfo di Napoli, un quarto d’ora di vacua brillantezza simil-cinematografica banalizzata da citazioni di canzoni napoletane (Marechiare, A’ vucchella: e la napoletanità di Tosti è quantomeno tutta da discutere….). Ma anche qui Grazioli fa il possibile per garantire una intensità melodica che non sconfina mai nel macchiettismo o nella napoletanità da cartolina.
Nella prima parte, lo sguardo sull’Italia dei compositori stranieri: prima con le brillantissime e piacevolissime Scene napoletane di Massenet (d’altronde il legame dei francesi con il nostro paese, tramite Villa Medici e il Prix de Rome, ha prodotto una quantità incredibile di musica), di grande impegno (come il resto del programma, d’altronde) per l’orchestra, e poi con il celebre – ma oggi di non frequentissimo ascolto – Capriccio italiano di Ciaikovski: apprezzabile, in questo caso, l’astenersi di Grazioli da facili effettismi, da quei rubati simil-tzigani cui molti indugiano, per sottolineare una sorta di morbidezza sonora, dove l’esplosione trionfale del finale non è parente della 1812 ma un’esultante, mediterranea festa. E, al di là di un piccolo incidente in Massenet, l’Orchestra Sinfonica di Milano lo supporta con grande qualità, segno di un’intesa che è consolidata da molti anni di lavoro comune in repertori spesso rari.
C’è poi da parlare della prima esecuzione di Microliti di Alessandro Melchiorre, per soprano, baritono e orchestra, su testi dell’omonima raccolta di aforismi e brevi poesie di Paul Celan. Se l’organico può richiamare la Sinfonia n. 14 di Shostakovich (che però limita l’orchestrazione ad archi e percussioni), ben diversa è la qualità della scrittura: venti minuti di scrittura densa, post-schoenberghiana, molto problematica per i due cantanti (costantemente sepolti dall’orchestra: e non certo per colpa del direttore), dal clima espressivo uniformemente grigio e indistinto. Una musica, purtroppo, ancora figlia degli ultimi retaggi darmstadtiani, completamente avulsa dal resto del programma presentato, e che – per essere schietti – nasce morta, e che si avvita su sé stessa senza convincere quasi mai; per non parlare dell’imbarazzo nel trattamento della voce, vero punto dolente in moltissimi compositori odierni. Non è così, come mi è capitato spesso di dire, che si può riannodare il legame tra musica d’oggi e pubblico, spezzato proprio da quei compositori del secondo dopoguerra cui anche Melchiorre sembra ispirarsi.
Ma per il resto, un concerto la cui libertà culturale e qualità esecutiva merita davvero un grande applauso: si replica domani (domenica 21) alle 16, non perdetelo.
Nicola Cattò