Chigiana International Festival (musiche di Mozart, Schulhoff, Debussy, Reich, Nilsson, Scelsi, Battistelli, Gervasoni, Gregoretti, Tartini, Sciarrino, Kuwabara e Macklay) interpreti vari
Siena, Cortile del Rettorato, Chiesa di Sant’Agostino e Teatro dei Rozzi, 19, 20 e 21 luglio 2021
È molto stimolante il titolo di questa edizione del Chigiana International Festival, Diverso, segno della volontà di aprirsi agli incontri e alle sperimentazioni in un cartellone che appare come un cantiere dove si confrontano musicisti di più generazioni, in particolare gli allievi della Summer Academy (quest’anno provengono da ben trentanove paesi) ed i loro docenti. In questi tempi di Covid è un paradosso, perché se oggi c’è una cosa guardata con sospetto se non addirittura vietata sono proprio gli incontri. A Siena, però, i responsabili della Chigiana sono andati caparbiamente avanti, riuscendo a proporre un Festival originale e ricco di spunti di riflessione, nonostante la rinuncia a quasi tutti gli appuntamenti orchestrali e anche ad una parte del pubblico, vista la riduzione di posti in location in alcuni casi già di per sé piuttosto piccole.
A incontrarsi nel cortile del Rettorato dell’Università sono stati quattro giovani quartetti, tutti allievi del corso di Quartetto d’archi e musica da camera tenuto alla Chigiana dal violoncellista Clive Greensmith. I giapponesi del Quartetto Integra, fondato nel 2015, hanno affrontato il primo dei sei quartetti di Mozart dedicati ad Haydn, il Quartetto in SOL K 387, in una lettura elegante ma un po’ asettica e guardinga, alla quale — a parte un incidente di percorso nel secondo movimento — mancava un po’ di slancio e di passione. Più convincente è apparso il Quartetto Demitasse, formatosi nel 2018 negli Stati Uniti, nei Fünf Stücke für Streichquartett di Erwin Schulhoff, una pagina del 1923 graffiante ed inquietante nella quale ritmi di valzer e di tarantella vengono deformati e sporcati, con in aggiunta l’elemento straniante rappresentato dal quarto brano, un tango, che negli anni Venti era una danza connotata come popolare e volgare: un ruvido incubo musicale di cui i giovani interpreti hanno saputo rendere fino in fondo la spigolosità armonica e l’intensità ritmica. Raffinatissima Il Qe di grande intensità emotiva è stata l’interpretazione del Quartetto in sol op. 10 di Debussy da parte il Quartetto Balourdet, anch’esso statunitense, senza dubbio il quartetto con più personalità tra quelli intervenuti nel corso della serata, fresco tra l’altro di un secondo Premio ex-aequo (con primo Premio non assegnato) al Concorso Borciani. Fin dalle prime battute si avvertivano una compattezza dell’insieme, uno slancio nel fraseggio, un’attenzione anche ai più piccoli dettagli che hanno reso emozionante l’ascolto. Erano da apprezzare le increspature del fraseggio nel movimento iniziale, l’incisività ritmica e la precisione dei pizzicati nel secondo, la delicatezza del successivo Andantino, i pianissimi e le esplosioni sonore del finale. Il quattro del Balourdet hanno posto una grande attenzione ai chiaroscuri dell’armonia (penso ai cromatismi del terzo movimento, impregnati di reminiscenze wagneriane) riuscendo tra l’altro a far sempre respirare la musica, aiutati dall’acustica del cortile del Rettorato che magari è un po’ generosa ma permette di far arrivare il suono al pubblico senza dover forzare il colpo d’arco.
La serata si è conclusa nel segno di Steve Reich, compositore a cui il Festival riserva quest’anno un’attenzione particolare, con l’esecuzione del Triplo Quartetto del 1998. Solitamente questo lavoro viene eseguito da un solo quartetto, che suona tutte e tre le parti sfruttando la tecnologia con la registrazione preventiva di due terzi del materiale, ma le circostanze di questa serata senese hanno permesso un’esecuzione molto particolare, che ha visto impegnati l’Integra, il Balourdet e il Quartetto Eridano, formazione quest’ultima costituitasi nel 2016 al Conservatorio di Torino. Pagina spettacolare anche visivamente, il Triplo Quartetto è un perfetto esempio dell’estetica minimalista di Reich basata sull’iterazione e sulla microvariazione, con una sorta di moto perpetuo che attraversa tutte le sue tre sezioni e che all’improvviso si ferma, perché in questo caso l’unica conclusione possibile è un’interruzione del movimento e non una sua risoluzione, come accade invece nella logica della tradizione classico-romantica; l’esecuzione è stata apprezzabile, nel segno di una grande tensione ritmica e di un ottimo equilibrio dell’insieme.
La musica di Steve Reich è stata protagonista anche di un’elettrica serata al piccolo Teatro dei Rozzi con il violinista Ilya Gringolts, che da quest’anno è docente alla Chigiana e che ha presentato l’ipnotico Violin Phase insieme a tre suoi allievi, Cosima Soulez-Larivière, Annika Starc e Julian Kainrath. Con questo lungo lavoro del 1967, nato come rielaborazione di Piano Phase, Steve Reich gioca sulla possibilità di creare delle melodie derivate dalla sovrapposizione dei semplici schemi ripetuti da ogni singolo esecutore fino all’estenuazione, con un vero e proprio effetto di illusione sonora e perfino di stordimento, vista la durata, secondo la tendenza propria del Minimalismo ad annullare la dimensione del tempo. Violinista di gran classe, protagonista anche del concerto del 16 luglio in Piazza del Campo con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ed Antonio Pappano, Ilya Gringolts ha poi proposto due nuovi brani che lui stesso ha commissionato attraverso la I&I Foundation di Zurigo, Bai und Dharani della giapponese Yu Kuwabara (in prima esecuzione italiana) e Trrhythms della statunitense Sky Macklay (in prima assoluta), alternandoli a due delle Sonate piccole di Tartini (le nn. 2 e 8), in un interessante dialogo a distanza tra Barocco e contemporaneità. Il controllo della tecnica dell’arco (usato in assoluta sicurezza in tutta la sua estensione, fino alla punta), la brillantezza esecutiva e la pulizia dell’intonazione del violinista russo sono stupefacenti – ma non lo scopriamo certo ora – e gli hanno permesso di affrontare in assoluta sicurezza due pagine di grande impegno esecutivo, più eterea quella di Yu Kuwabara, più incalzante e ruvida quella di Sky Macklay. Il virtuosismo di Gringolts però è tutto al servizio della musica, come hanno rivelato le due Sonate tartiniane, dal fraseggio elegante e danzante, perfettamente a fuoco e insieme naturalissime, anche grazie all’acustica del Teatro dei Rozzi, che lascia correre agevolmente il suono.
Il momento più alto della serata è stato senza dubbio l’esecuzione dei sei iperbolici Capricci per violino solo composti nel 1979 da Salvatore Sciarrino, presente per l’occasione in sala, per Salvatore Accardo, che proprio a Siena li presentò in prima assoluta. Sciarrino sembra voler dare una sorta di immagine rovesciata dei Capricci paganiniani, costruendo complicatissime strutture basate quasi unicamente su suoni armonici (anche in bicordi, come nel caso del Terzo capriccio) da eseguire a velocità estreme. Il violino non è chiamato a cantare, riducendosi piuttosto ad un filo bianchissimo e pungente di suono, una sorta di negativo di una fotografia, in un delirio di inquietanti invenzioni virtuosistiche tra cascate di tremoli (in particolare nel Capriccio n. 4) e rapidissimi passaggi in semitono che sono prima di tutto invenzioni timbriche. L’esecuzione di Gringolts è stata di un livello molto alto per la capacità di definire ogni più piccolo dettaglio e di muoversi in assoluta scioltezza in una partitura che fa venire i brividi anche soltanto a guardarla. Il pubblico ha apprezzato: la musica del Novecento, che per una deformazione mentale tendiamo spesso a considerare contemporanea anche se è stata scritta quasi mezzo secolo fa come nel caso dei Capricci, può funzionare molto bene anche fuori dalla cerchia degli intenditori, quando è inserita in un programma ben congegnato e quando viene proposta da interpreti che non si limitano ad eseguirla ma sanno coglierne il senso profondo.
Alla musica contemporanea era interamente dedicato il concerto nella Chiesa di Sant’Agostino, con il trombone di Ivo Nilsson e le percussioni di Antonio Caggiano. Al centro della serata c’era la prima esecuzione di Due diversi versi di Lucio Gregoretti per trombone e percussioni, pagina giocata sul contrato tra le sonorità eteree e sognanti di un vibrafono sempre in penombra e i ruvidi interventi di un trombone nervoso e teatrale. In Sylfer per trombone e percussioni composto nel 2020 dallo stesso Nilsson si esplorano possibilità sonore insolite e programmaticamente disorientanti per l’ascoltatore, tra fruscii e soffi lievi, in una dimensione tanto musicale quanto teatrale. Teatralissima è Trama (2001) per percussioni di Giorgio Battistelli, in cui l’esecutore diventa in modo provocatorio anche un attore, in un gioco di demitizzazione dell’atto musicale che risente in modo palese dell’estetica di Mauricio Kagel, un’estetica però che se negli anni Settanta aveva una sua ragione d’essere oggi appare decisamente datata. Il programma del concerto era completato da Nube obbediente per trombone e percussioni composta nel 2011 da Stefano Gervasoni, una pagina timbricamente molto accesa e piena di invenzioni ritmiche caratterizzata da una progressiva destrutturazione del materiale di partenza, nella quale i due interpreti hanno dato una grande prova di affiatamento, e da un classico del repertorio per trombone solo, i Tre pezzi composti nel 1956 da Giacinto Scelsi: Ivo Nilsson ha reso in modo superlativo le suggestioni di una musica, tecnicamente molto impegnativa, che non sembra essere stata composta ma si offre all’ascoltatore come puro materiale sonoro, come se il compositore abbia voluto semplicemente osservare il movimento dei suoni nello spazio invece di organizzarlo.
Luca Segalla