Isotton, Meli e Salsi per una Tosca da applausi alla Scala

PUCCINI Tosca C. Isotton, F. Meli, L. Salsi, M.F. Romano, L. Huanhong, C. Bosi, C. Finucci, X. Hyseni, A. Fazio; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Gamba regia Davide Livermore scena Giò Forma costumi Gianluca Falaschi

Dopo l’inaugurazione della stagione 2019/20 — che durò ben poco causa Covid — ecco che la Scala ripropone la sontuosa Tosca con la regia di Davide Livermore (qui la mia recensione), rivedendo la quale sembrano confermarsi pregi e difetti: i primi, certamente prevalenti, evidenti nella capacità di cogliere la dimensione moderna e cinematografica della partitura, traducendo il sontuoso tripudio barocco creato da Puccini in una continua moltiplicazione e scomposizione dello spazio scenico. Un tratto, questo, palese soprattutto nel primo atto, con gli spazi di Sant’Andrea della Valle che si muovono secondo infinite linee di fuga, come certe architetture del ‘600 romano, e che ritorna nella — invero discutibile — rappresentazione finale della protagonista che, gettatasi da Castel Sant’Angelo, ritorna proiettata verso l’alto, moderna Santa Teresa del Bernini. Livermore (o chi per lui: la regia è stata ripresa da Alessandra Premoli) ha lodevolmente depurato il secondo atto da alcune divagazioni non necessarie, ma non ha rinunciato al coup de théâtre del sollevamento dell’intero macchinario (altro tratto baroccheggiante…), con lo svelamento a vista della tortura di Cavaradossi, un’idea che continuo a ritenere poco felice. Così come il vorticoso roteare della terrazza di Castel Sant’Angelo al terz’atto, quasi avvolta dalla gigantesca ala dell’angelo di Peter Anton von Verschaffelt, mi pare sempre un virtuosismo fine a sé stesso. Una Tosca, però, intensamente tragica, violenta e cupa, sontuosamente realizzata, nonostante l’incidente elettrico che ha privato della luce parte del palcoscenico e della buca (incluso il leggio del direttore) alla fine del primo atto: un problema che ha causato qualche comprensibile sfasamento ritmico nel Te Deum e, poi, un primo intervallo prolungato fino alla risoluzione del guasto.

Inevitabile, quindi, la tensione del Maestro Gamba, di fatto debuttante nell’opera (aveva giusto testato la partitura in un paio di recite a Cluj, non esattamente una capitale operistica), la cui lettura ha colpito per i tempi molto dilatati (a volte troppo, come in “Recondita armonia”) che permettevano una non consueta chiarezza di analisi e la messa in risalto di particolari strumentali. Se una certa carenza di fluidità teatrale era avvertibile nel primo atto, le cose sono migliorate dopo il primo intervallo e, anzi, al netto di qualche eccesso sonoro, tutta la grande arcata del secondo era gestita con lucidità e capacità di mantenere alta la tensione: e in questo senso la stasi lirica del “Vissi d’arte” si inseriva con grande naturalezza. L’alba del terzo atto, poi, con i colori lividi e sospesi che uscivano dalla buca, con uno stacco dei tempi ancora molto comodo ma del tutto logico, fa ben sperare per i prossimi approcci del Maestro Gamba al capolavoro pucciniano.

Dal 2019 tornavano i due protagonisti maschili, entrambi in ottima forma: per Francesco Meli, Cavaradossi è un ruolo ideale, perché ne esalta i centri suadenti e timbrati, l’emissione educatissima e sempre disposta alle ricchezze dinamiche (un momento per tutti: l’improvviso piano e poi crescendo in “Occhio all’amor soave”) e lo porta ai pur moderati acuti in modo progressivo, senza sbalzi improvvisi. In breve, un Cavaradossi affascinante. Luca Salsi, invece, persegue la sua lettura di uno Scarpia violento, selvaggio, aggressivo, e forse questa regia non avrebbe consentito altra scelta (il Barone entra in chiesa in controluce, avvolto da una nube d’incenso, quasi alla Mefistofele…): il baritono parmense ha un tale carisma, un tale controllo del mezzo vocale che sa realizzare questa impostazione in modo compiuto, senza danneggiare uno strumento la cui natura — intimamente “verdiana” — secondo me potrebbe e forse dovrebbe suggerire un approccio più sfumato, meditato e distaccato. Ma il trionfo ottenuto zittisce subito le mie pur velate obiezioni. Memorabile, more solito, lo Spoletta di Carlo Bosi, un modello di equilibrio il Sagrestano di Marco Filippo Romano (ma certi accenti dell’Antoniozzi del 2019, che pure cantava tanto peggio, non riesco a dimenticarli…) e discreti gli altri comprimari; resta quindi da dire di Chiara Isotton, al suo primo, vero cimento da primadonna alla Scala dopo qualche recita qua e là. Rispetto ad Anna Netrebko soccombe per opulenza del mezzo vocale, per naturale sensualità dell’emissione, per carisma; ma dà punti alla collega russa per chiarezza della dizione e rispetto della scrittura musicale. La sua è una Tosca giovane, fresca, impetuosa, scenicamente coinvolta e appassionata, squillante nei tanti acuti e con un bel vibrato, un po’ all’antica, nei centri, da vero lirico spinto: e la musicalità — fatto salvo un piccolo scivolone nella “Trionfalata” del terz’atto — è di alta scuola. Una Tosca senza primadonnismi all’antica, ma intensa e diretta: la strada, oggi, più sensata.

Prima di chiudere dicendo che il teatro era strapieno e il successo si è rivelato calorosissimo per tutti, va ricordato che anche in questa ripresa si è mantenuta la lezione originaria dell’opera, con quei cinque piccoli dettagli che poi Puccini sistemerà subito dopo le prime recite romane: scelta comprensibile all’atto pratico, ma certo nociva musicalmente. Basta vedere come l’aver anticipato di poche battute l’“Avanti a lui” di Tosca cambi del tutto faccia al finale secondo, per tacere della coda strumentale più lunga al terz’atto: qualcosa che un grande uomo di teatro come Puccini ha subito emendato.

Nicola Cattò

Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala

Data di pubblicazione: 16 Marzo 2025

Related Posts