BEETHOVEN Fidelio A. Kampe, J. Kaufmann, F. Struckmann, K. Youn, M. Erdmann, P. Mattei, F. Hoffmann, O. Cosimo, D. Longo; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Daniel Barenboim regia Deborah Warner scene e costumi Chloe Obolensky luci Jean Kalman
Milano, Teatro alla Scala, 10 dicembre 2014
Potenza di Alexander Pereira? Chissà…Sta di fatto che, causa involontaria un’indisposizione di Klaus Florian Vogt, titolare del ruolo di Florestan, la Scala è riuscita a reclutare, anche se per la sola recita del 10 dicembre, il tenorissimo del momento, Jonas Kaufmann. La sostituzione è stata annunciata nel primo pomeriggio del giorno stesso; Kaufmann sarebbe arrivato in teatro a spettacolo già iniziato. Nel frattempo una cinquantina di posti che erano rimasti invenduti sono andati a ruba e la caccia al biglietto è continuata fino al levarsi del sipario. Contrariamente a quanto accade di solito alla Scala, il nuovo sovrintendente – che alla comunicazione attribuisce sicuramente maggiore importanza del suo predecessore – si è affacciato al proscenio per annunciare che “sfortunamente” Vogt era malato, ma che “fortunamente” si era riusciti a sostituirlo con Kaufmann. E mentre Barenboim saliva sul podio accolto da una lunga ovazione, il mio vicino di posto, abbonato del Turno C, si chiedeva chi fosse “questo Kaufmann” ed io mi chiedevo come mai la Scala non preveda dei sostituti in stand-by per la produzione più importante della stagione.
Dello spettacolo ha già riferito Nicola Cattò. Condivido nella sostanza la sua analisi, pur con qualche marginale distinguo. Condivido anzitutto il giudizio sul lavoro di Barenboim in questi anni alla Scala: si tratta di un interprete indubbiamente carismatico ed in qualche modo emblematico del nostro tempo, con il suo essere ubiquo e, quindi, mai veramente radicato in un luogo ben preciso. Il suo Fidelio si rifà a modelli d’antan, ricollegandosi a quella tradizione esecutiva che dell’unico lavoro teatrale di Beethoven tende a mettere in evidenza la magniloquenza sinfonica e l’enfasi romantica, lasciando inevitabilmente passare in secondo piano le componenti più leggere e discorsive, che trovano espressione nella struttura formale del Singspiel. Il primo atto risulta dunque un poco greve; al secondo viene impresso ben altro ritmo narrativo.
Deborah Warner tornava a Fidelio tredici anni dopo averlo diretto a Glyndebourne (2001). In quell’occasione, il conflitto bellico nella ex-Jugoslavia era al centro dell’allestimento. Questa volta la regista originaria dell’Oxfordshire opta per un’ambientazione meno caratterizzata geograficamente. Pur tuttavia, gli effetti della guerra aleggiano su questo luogo misero e scalcinato, una sorta di fabbrica dismessa. Se è vero che i cantanti recitano bene, è altrettanto vero, però, che poco ci si sforza di metterli in relazione l’uno con l’altro: con il risultato che nelle scene d’insieme i personaggi sono spesso schierati frontalmente ed a debita distanza uno dall’altro. Spettacolo di buona fattura, nel complesso, ma non particolarmente innovativo, soprattutto se confrontato con quanto si vede nei teatri esteri. Anja Kampe mette in mostra un apprezzabile temperamento drammatico, che le consente, in parte, di dissimulare alcuni palesi limiti nei passaggi dalla vocalità più tesa. Falk Struckmann è un Pizarro becero e vociferante; l’esatto opposto del Rocco di Kwangchul Youn, che in forza di un’emissione morbida ed una recitazione misurata, esprime efficacemente i timori e i limiti di quest’uomo semplice e fondamentalmente buono. Peter Mattei è un Don Fernando di gran lusso; nulla più che discreti Mojca Erdmann (Marzelline) e Florian Hoffmann (Jaquino).
E “questo Kaufmann”? Il suo biglietto da visita è un pianissimo impalpabile, progressivamente rinforzato in un interminabile crescendo. A questa prodezza vocale segue nel resto della recita un fraseggio di straordinaria eloquenza ed una recitazione di grande intensità emotiva, associate a quel timbro spesso e virile che è un po’ il marchio di fabbrica del tenore bavarese. Un Florestan indebolito ma non ancora vinto, di fronte al quale il pur discreto Vogt è parso un ectoplasma. Non mi resta pertanto che compiangere la signora della fila dietro (abbonata anch’essa, presumo) che durante il primo atto ha chiosato: “Che opera noiosa, con tutto questo parlato; a me piace la melodia. All’intervallo mi faccio due chiacchiere e poi vado a casa”…
Paolo di Felice