VERDI Otello G. Kunde, F. Dotto, L. Micheletti, A. Mandrillo, A. Galli, M. Denti, A. Petricca, E.M. Degiacomi, S. Kaneko; Coro del Teatro Municipale di Piacenza, Orchestra dell’Emilia-Romagna A. Toscanini, direttore Leonardo Sini regia Italo Nunziata scene Domenico Franchi costumi Artemio Cabassi
Reggio Emilia, Teatro Municipale “Romolo Valli”, 19 gennaio 2024
Otello Moro? Anzi, pallidissimo! E non perché il tenore Kunde avesse trascurato il maquillage, che in fondo stavolta non era necessario, il Moro di Italo Nunziata (rubricato come regista dello spettacolo) avendo perduto ogni parvenza di “negritudine”, di ferocia selvaggia (e d’eroismo), per tramutarsi in un borghesuccio depresso e complessato, manovrato a piacimento da uno Jago tracotante, pieno d’arroganza: non sarebbe piaciuto a Verdi, che lo voleva “un po’ prete”, con questo intendendo insidiosamente falso, ma affascinante.
L’errore madornale del regista stava tutto nell’assunto: Otello ‘dramma borghese’, che nei fatti diveniva piccolo-piccolo borghese. Ma se v’è un dramma che non può in nessun modo essere ridotto a borghese, questi è l’Otello verdiano; anche perché di Verdi si può dire tutto ma che fosse ma borghese, mai. Non lo fu neppure con la Traviata, che egli inciela verso altri universi, instrada lungo diverse vie che non strade e mondi borghesi. In questo scadentissimo Otello il povero Kunde si è ritrovato costretto a gesticolare mossette da imbecille, a posar le mani al modo di chi stupido non capisce, ad atteggiarsi a quello che a Firenze si dice ‘un bischero rifinito’; mentre in più di un’occasione Jago gli fa la voce grossa e truce: l’alfiere non ha nulla da erodere al condottiero, lo domina da sùbito. Ma in cotal modo svanisce l’interesse pel personaggio, il più innovativo – nel panorama operistico tradizionale – dell’opera e il succo stesso del dramma. E c’è da pensare che un generale tanto imbelle come quest’Otello abbia potuto sconfiggere la flotta musulmana solo per l’intervento dea ex machina della tempesta.
Fortuna (ma non per lo spettacolo, che pativa i controsensi) che sia Kunde che Micheletti – attore supremo dal quale avremmo gradito qualche nota timbrata in più – col canto non si sono adeguati all’infelice scelta registica. Kunde, tirando fuori una “canna” da vero Heldentenor e uno squillo luminoso da puro eroe romantico, su un fraseggio tormentato come l’animo del Moro; il baritono, tratteggiando un sobillatore pieno di fascino giovanile: basterebbe questo a mettere in soggezione Otello, vecchio, ferito nell’aspetto dagli anni e dalle fatiche di una vita avventurosa e sempre oltre il limite del rischio. La gelosia è dirottata ad arte su Cassio, ma nasce per Jago, il quale ha l’avvenenza e i modi cortesi che al rude condottiero mancano e che vanamente ha tentato di conquistare, riscattando la sua origine selvaggia, anche attraverso l’unione con Desdemona.
E pure l’altra trovata della regìa, di spostare l’azione al tardo Ottocento, perde di senso perché mal realizzata: l’intenzione dichiarata era quella di mostrare le corazze non delle armature ma di una società – quale fu quella del periodo – claustrofobica, ottusa, ipocritamente perbenista (stiamo parlando dell’oggi?). Una società – scrive il regista nei velleitari “appunti di messa in scena” — che ebbe «corazze ben precise fatte di particolari tagli degli abiti, di rituali e forme ineludibili di vivere sociale, di appartenenza per nascita a un mondo dove chi viene dal di fuori […] sarà visto e ne rimarrà come “estraneo e straniero”». Solo che l’ultima parte, più shakespeariana che verdiana, posto che nell’opera l’argomento è usato una sola volta da Jago per sobillare Roderigo, non è in alcun modo – poi – recuperata; e gli abiti non hanno fogge caratterizzanti: il popolo è vestito un poco alla “giocondo zappaterra” da operetta di periferia, i militari portano divise eleganti, gli abiti borghesi degli uomini sono di bella foggia e Desdemona si presenta con una lunga veste celeste che ne carezza in maniera sensualissima le belle forme e anche all’ultima scena indossa una camicia da notte che non si cura troppo di pudicizzare la sua bellezza e una vestaglia di rosso acceso che perfino Otello deve averci fatto un pensierino prima di metterci il fatale cuscino sopra!
A questo punto bisogna dire della straordinaria interpretazione di Francesca Dotto, che col fraseggio nobilissimo e la recitazione da sublime tragédienne fa piazza pulita dell’incistito cliché della Desdemona tutta purezza virginale e incredulità. Desdemona è anch’essa una combattente (di fatto, per sposare Otello ha già dovuto contrapporsi al padre, che non gradiva un genero ‘moro’), affronta battaglia e tempesta di fianco al consorte e, quando questi le si rivolta contro, gli si oppone con non remissivo coraggio: perfino quell’insistere su Cassio, generalmente stupidino, è dalla Dotto reso giustificabile dal non poter pensare alla gelosia del marito, tanto è sicura di sé e di lui, come il fraseggio irremissivo dell’artista ben fa chiaro. Al terz’atto la sposa del Moro sa già di dover morire: l’accettazione del fato è anch’esso prova d’amore e di “militaresca” obbedienza, oltre che dignitosa scelta personale: meglio morta che infangata.
Il quarto atto è stato quello meglio riuscito, intanto perché la regìa si è come distratta e ha lasciato correre il dramma, con – va detto – una bella intuizione: l’avemmaria di Desdemona senza inginocchiatoî e megacrocifissi “alla Zeffirelli”, recitata con intonazione semplicissima seduta su un divanetto. Non confessione cristiana – Desdemona è consapevole di non avere nulla di cui fare ammenda –, non preghiera “per sé”, ma benedizione (e perdono) dello sposo reo inconscio. L’amen finale, sbrigativo, secco, senza nessuna enfasi e perciò densissimo di affetti e di tragicità è stato sublime cesello di uno supremo saggio di parola scenica, come la intendeva il Maestro. E per la prima volta, ritengo, abbiamo amato Desdemona più di Otello. Al quale Kunde concede una morte straziata, tragica quasi da parere vera. E alla fine più d’uno ha pianto. Segno che il melodramma – così lontano, in tutto, da noi, dai sensi e dal modo di esprimerli di oggi, qualche capacità di sedurre, d’emozionare, la mantiene ancora.
A dispetto degli stupri perpetrati da molte regie (“shoot the director!”) e da direzioni inerti, slentate, povere di colori e prive di una visione generale dell’opera come quella maldestramente concertata da Leonardo Sini, a capo di una orchestra “Toscanini” svogliata e di un coro sgangherato. Su questo bisognerà riflettere.
Bernardo Pieri