VERDI La battaglia di Legnano A. Poli, M. Rebeka, V. Stoyanov, R. Fassi, A. Verna, E. Abdullaiev, F. Pittari; Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Diego Ceretta regia Valentina Carrasco scene Margherita Palli costumi Silvia Aymonino
Parma, Teatro Regio, 4 ottobre 2024
“Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”, diceva il Dottor Johnson, e a Valentina Carrasco non sembra vero poterlo ribadire in questo allestimento parmense della Battaglia di Legnano per il Festival Verdi: peccato che se c’è un titolo verdiano che trasuda patriottismo — per il soggetto, per il contesto storico in cui nasce, per quello che si legge nelle lettere verdiane del periodo — sia proprio questo, dai primi versi del libretto di Cammarano (“Viva Italia! Un sacro patto tutti stringe i figli suoi”) al sublime terzetto finale (“Chi muore per la Patria alma sì rea non ha!”). La regista argentina, come spiega nelle note di sala, ritiene che il nazionalismo verdiano sia la “creazione di un’identità, di unione di popoli diversi in una causa comune”: e affida il compito di simboleggiare gli orrori delle guerre al cavallo, onnipresente in scena, dilaniato o accudito, in battaglia o a riposo. Tanto che anche la scena del salto dal balcone di Arrigo per unirsi al combattimento si svolge in una stalla, dalla quale il protagonista sfugge dando un colpo al lucchetto: si sa, il confine tra il sublime e il ridicolo è talora esile… Una regia che ha qualche momento efficace (l’apparizione del Barbarossa nel finale secondo), ma che complessivamente è esteticamente brutta (si stupisce nel leggere il nome di Margherita Palli come scenografa: e l’assenza delle bandiere italiane è compensata da drappi verdi) e banale sia nella gestione della drammaturgia che nell’evidenziazione delle relazioni tra i personaggi. Anche perché la Battaglia è un’opera molto singolare: scritta nel 1849, precede di due anni la Trilogia popolare e come quella immediatamente successiva (Luisa Miller, del medesimo anno) condivide retaggi del Verdi “di galera” e folgoranti intuizioni della piena maturità: il libretto e la drammaturgia di Cammarano sembrano in effetti guardare indietro e, come nota anche un grande ammiratore della partitura qual è il Budden, il suo problema principale è l’alternanza brusca di “campi larghi e primi piani”, ossia di scene di massa, giuramenti, battaglie, e improvvise focalizzazioni sui tre personaggi principali. Ma la musica quasi sempre guarda avanti: che un coro venga ripreso tale e quale in Rigoletto (“O tu che la festa audace hai turbato”) ne è una spia, ma la raffinatezza della scrittura orchestrale, l’economia dei mezzi strumentali e la rinuncia quasi completa a quel repertorio di formule musicali che troviamo a piene mani ancora nel Corsaro dell’anno prima, è qualcosa che segna una svolta decisiva nello stile verdiano. E che è evidentemente ciò che interessa di più al giovanissimo direttore Diego Ceretta, il quale — come quasi tutte le giovani bacchette odierne — ha tecnica e cultura, e sa benissimo cosa vuole: ma purtroppo non sa come si sostiene a dovere il canto, come si respira con le voci, come si gestisce — ad esempio — un pezzo bruttarello ma d’effetto come la cabaletta di Lida senza dare continuamente addosso alla cantante alla ricerca di chissà quale intensità espressiva. E non è ovviamente (solo) questione di tempi molto brillanti: è che, a partire dalla celebre sinfonia, la ricerca del dettaglio era continua, ma molto meno la gestione dell’arco drammaturgico, la resa della “tinta” strumentale e insomma la capacità di cogliere, come facevano bacchette di un tempo (magari meno dotate tecnicamente ma molto più esperte di teatro) il senso di un’opera del genere. Come se dirigere la Battaglia fosse un contentìno temporaneo verso opere musicalmente più complesse e raffinate.
Dalle prime note, Antonio Poli soggioga il pubblico con una voce di bellezza davvero non comune: ma il tenore romano, in più, sa cantare legato e sfumare quando serve, squilla nei concertati e rifinisce il suo fraseggio in maniera semplice ma non banale grazie a una dizione di adamantina chiarezza. Un poco più di baldanza tenorile e avremo l’Arrigo perfetto. Al suo fianco Marina Rebeka è la cantante di classe adamantina che tutti conoscono, che sopravvive (e con raffinate variazioni nel da capo) all’inclemente bacchetta nella cabaletta e poi mette in campo un canto purissimo e intenso, culmine una preghiera del quarto atto che ne riafferma la statura di grande musicista, che in questo momento della sua carriera mi pare perfettamente a suo agio nel primo Verdi (molto più che nei Vespri, ad esempio…). Vladimir Stoyanov è un habitué del Festival Verdi, ma Rolando ne mette ormai alla luce più i difetti di una voce ormai affaticata che i pregi, pure non assenti in un fraseggio di nobile dignità. Eccellente il Barbarossa di Riccardo Fassi (una di quelle parti di secondo basso la cui importanza si rivela solo quando l’interprete è mediocre, ossia quasi sempre: l’appassionato di dischi storici vada a risentirsi la celebre recita scaligera del 1961 diretta da Gavazzeni e avrà chiaro il discorso!) e dignitosi tutti i comprimari, così come i complessi bolognesi sono apparsi adeguati (ma non molto di più). Il successo non è mancato, ed è stato particolarmente caloroso per la Rebeka e Poli. E per completare le nostre recensioni di questo Festival Verdi, dopo il Ballo bussetano (vedi qui), vi rimando al numero di novembre con le cronache di Francesco Lora.
Nicola Cattò
Foto: Roberto Ricci