CHOPIN Ballata n. 1 in sol op. 18; Ballata n. 4 in fa op. 52; Andante spianato e Grande polacca brillante op. 22 DEBUSSY Reflets dans l’eau; L’isle joyeuse RAVEL Jeux d’eau pianoforte Alessandro Taverna
Varese, Villa Panza, 7 ottobre 2017.
Tutto profuma di antico a Villa Menafoglio Litta Panza, dimora settecentesca circondata da un grande parco nel cuore di Varese, poco sopra il centro cittadino, oggi proprietà del FAI, tra ampi saloni, corridoi e cortili ed una collezione di opere di arte contemporanea singolarmente mescolate a preziosi oggetti d’antiquariato. D’antico profumava anche il recital pomeridiano tenuto o dal pianista Alessandro Taverna, trentaquattrenne di Portogruaro, sul rarissimo Pleyel del 1855 di proprietà della Villa. Una piccola ed elegante sala con appena 120 spettatori – quanto la capienza consentiva, è stata la cornice di un concerto pomeridiano inserito nella manifestazione «Nature Urbane»: il contesto ideale per ascoltare la musica di Chopin, il quale, come è noto, si esibiva nei salotti privati parigini e non nelle grandi sale, suonando proprio sui Pleyel, che in Francia negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento erano i pianoforti per antonomasia.
C’era dunque molto Chopin in programma, ma anche, con una scelta meno scontata, pagine di Debussy e Ravel. Vincitore del concorso di Leeds una decina d’anni, avviato finalmente, dopo qualche anno di attesa, verso una carriera internazionale di prestigio, Taverna è un interprete moderno per il gran virtuosismo (bastava, a dimostrarlo, la coda della Ballata n. 1 chopiniana), la compostezza e la professionalità. Possiede del resto una grande fantasia, un estro particolare, una forza comunicativa – un’ansia comunicativa si direbbe – che ne fanno anche un pianista all’antica, come rivelavano dei Reflets dans l’eau (dalla prima serie delle Images debussyane) sontuosi ed insieme ammalianti nei loro riverberi timbrici e nel loro fraseggio appassionato.
In una parola Taverna è un pianista di classe, e la classe oltre a non avere età non è né antica né moderna. Era la prima volta che si cimentava su un Pleyel storico (autentico in tutto, quello di Villa Panza: nella cassa armonica, nella meccanica, negli scricchiolii e perfino nella scarsa tenuta dell’accordatura, diventata precaria verso la fine del recital), dimostrando di sapersi ben adattare alla meccanica e soprattutto alle sonorità di uno strumento così diverso dai nostri. Magari con qualche eccesso di brillantezza, come nel Grande valzer brillante in MI bemolle op. 18 di Chopin concesso come i bis (ma nei bis, si sa, allo stile si bada poco…), ma sempre con gusto e con quella sensibilità timbrica che è il discrimine tra i pianisti semplicemente bravi ed i talenti.
Certo, a voler essere pignoli, tra il Pleyel del 1855 e i brani di Debussy e Ravel in programma correva mezzo secolo di distanza (e tre note in meno sulla tastiera…), ma questa inesattezza filologica è stata tutto sommato ininfluente per la buona riuscita del concerto. Debussy e Ravel, suonati su quel Pleyel e da un interprete intelligente come Taverna, funzionavano; penso alle sonorità perlate di Jeux d’eau, penso soprattutto alle iridescenze acquatiche dell’Isle joyeuse. I pianoforti nel tardo Settecento non possedevano una uniformità timbrica tra i registri grave, medio ed acuto (la scrittura delle sonate mozartiane sfrutta proprio questa caratteristica) e se nel corso dell’Ottocento il timbro si è andato progressivamente uniformando fino a circa il 1860/1870 questa caratteristica era ancora evidente. Sul Pleyel L’isle joyeuse ha così rivelato un carattere più bizzarro ed inquieto del consueto, dando una sensazione di spazio proprio in virtù del diverso timbro delle singole voci nei passaggi contrappuntistici, come è avvenuto nella Quarta ballata di Chopin. Peccato solo per i bassi, che non potevano avere lo stesso spessore dei bassi di un moderno grancoda e per un legato privo della pasta del legato realizzato sui pianoforti odierni.
Alessandro Taverna ha quasi sempre trovato un fraseggio mosso e vivace, adatto al suono ed alla meccanica di questo strumento. Ed ha trovato, soprattutto, un tono confidenziale ed intimo, anche in una pagina di grande respiro melodico e virtuosistico (pensata originariamente come brano per pianoforte e orchestra) come l’Andante spianato e Grande polacca Brillante: un Andante spianato pieno di sorprese, ed una Polacca davvero danzante, senza eccessi, senza forzature. Successo pieno, con un pubblico entusiasta e consapevole di aver vissuto un’esperienza di ascolto in un contesto oggi molto raro.
Luca Segalla