PURCELL The Fairy Queen P. Francisco, G. Burashko, R. Leggett, J. Mey, I. Aksionov, R. Carreto, H. Herman-Wilson, B. Schilperoort; Compagnie Käfig, Les Arts florissants, direttore William Christie regia e coreografia Mourad Merzouki costumi Claire Schirck
Milano, Teatro alla Scala, 30 giugno 2024
Parti parlate, parti cantate e parti danzate, organizzate in modo tale da tenere esperanticamente insieme la prosodia musicale e il gusto teatrale inglesi, il coronato modello francese della tragédie lyrique e le novità italiane da camera che in edizioni a stampa – soprattutto emiliane: per esempio i due Giovanni Battista, Bassani e Vitali – arrivavano a Londra. Quando poi l’opera italiana affondò le radici alla foce del Tamigi, quel genere di spettacolo, invecchiato precocemente, finì riduttivamente ribattezzato come semi-opera: per il pubblico londinese del 1692, nondimeno, The Fairy Queen di Henry Purcell era un’opera a pieno titolo, l’unico tipo di opera che avesse senso ascoltare nella capitale. Dalla fine dell’estate scorsa – tutti ormai lo sanno – uno spettacolo incentrato su questo lavoro sta facendo il giro del mondo, come frutto dell’accademia “Le Jardin des Voix” promossa dagli Arts florissants e co-diretta da William Christie e Paul Agnew; a rinnovare la notizia dieci mesi dopo è il fatto che tale produzione è sbarcata alla grande anche in Italia, come concerto straordinario al Teatro alla Scala. Benissimo, con qualche nodo che viene al pettine del musicologo secentista. È moralmente difficile far le pulci a Christie, che di simile repertorio è disinvolto padrone, per ironia, spirito, eleganza, nitidezza e plasticità di conduzione: spiacciono, però, i tagli alla nient’affatto prolissa partitura e le libere dislocazioni dentro di essa; spiacciono i professori d’orchestra non adeguati nel numero – e talvolta anche nella coesione – alla grande sala piermariniana; spiacciono, infine, le necessità della musica asservite a una parte visiva coinvolgente ma fuorviante. Nell’agile mise en espace con costumi minimali e nessuna scena, difatti, il regista e coreografo Mourad Merzouki compie il miracolo di fondere in un unico gruppo, millimetricamente perfetto nella tecnica di teatro, gli otto cantanti e i sei danzatori: non si riesce più a distinguere gli uni dagli altri. Il pasticcio è che dell’opera non resta più l’opera; ossia: la semi-opera, anziché riscattarsi, fa qui indistintamente scalmanare la danza anche sulle pagine vocali che non ne predispongono i metri né ne giustificano i passi, finendo per annullarsi in un lungo gioco coreografico con sottofondo musicale, utile a distrarre piacevolmente – soprattutto in senso visivo – lo spettatore annoiato da Purcell. Non è un personale punto di vista, ma un oggettivo fatto programmatico: i cantanti si fanno carico, in rari casi, di brani puramente musicali, corrispondenti a un registro vocale e non a un personaggio, ma al di là delle eccezioni i personaggi ci sono eccome, e sarebbero un poeta cieco e una coppia di fate, la notte, il mistero, il segreto, il sonno e le quattro stagioni personificati, Coridon e Mopsa, Febo e Giunone e Imeneo, un uomo e due donne cinesi; ebbene: in nessuno dei materiali diffusi nell’àmbito di questo progetto è specificato quale tra gli interpreti si faccia carico di quali parti, secondo una concezione dunque liquida e collegiale, tale da far passare la voglia di ricondurre con certezza il canto e il corpo a uno tra i nomi elencati. La voglia passa anche poiché il soprano Paulina Francisco, i mezzisoprani Georgia Burashko, Rebecca Leggett e Juliette Mey, i tenori Ilja Aksionov e Rodrigo Carreto, il baritono Hugo Herman-Wilson e il basso Benjamin Schilperoort costituiscono una complice, stupenda squadra polifonica e attoriale, ma individualmente recano un canto tanto garbato ed educato quanto pallido e generico, nel quale si fatica a riconoscere la prospettiva di carriere notevoli. Peccato che si sia alla Scala. “Ma il barocco – etichetta orrenda – si canta così!”, obietterà qualcuno. Nossignori, e a darne conto è la storia della musica di quegli stessi anni in Inghilterra, quando l’accoglienza di cantanti illustri dall’Italia, con l’assimilazione delle loro qualità e lezioni, fu appunto di stimolo alla composizione di opere nella lingua e nelle forme nazionali: nel 1693 Pier Francesco Tosi, futuro autore delle Opinioni de’ cantori antichi e moderni, dava concerti settimanali agli York Buildings, mentre sei anni prima Londra aveva potuto ascoltare addirittura Giovanni Francesco Grossi detto il Siface, nerbo della scuderia canora di Francesco II d’Este, con grande impressione di Purcell medesimo, che a lui dedicò un brano per clavicembalo, Sefauchi’s Farewell. Sicuri, quindi, sicuri? Sicuri che alla corte reale inglese di fine Seicento, cui si riconduce The Fairy Queen, nonché nelle massime istituzioni musicali di oggi, cui si riferisce lo spettacolo del Jardin des Voix, non si fosse e non si sia in diritto di puntare in alto e più in alto?
Francesco Lora