HAYDN La creazione del mondo L. Ruiten, R. Lorenzi, G. Sala; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Sir John Eliot Gardiner maestro del coro Piero Monti
Roma, Auditorium del Parco della Musica, 15 gennaio 2022
È La creazione del mondo e non Die Schöpfung, perché l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha inserito nella sua stagione sinfonica una preziosa rarità: la versione in italiano del lavoro di Haydn realizzata da Giuseppe Carpani (1752-1825), giurista ed organizzatore musicale, versione scritta nel 1801 e eseguita per la prima volta dall’Accademia Filarmonica Romana nel 1825 e ripresa dall’Accademia di Santa Cecilia nel 1869 in un’esecuzione di beneficienza, “nell’aula massima capitolina” per gli orfani dell’epidemia di colera. A quell’epoca si usava eseguire nella lingua del Paese dove era il teatro o la sala di concerto. Rispetto a molte “versioni ritmiche” di opere, ad esempio, di Richard Wagner che lasciano a desiderare, il buon Avv. Carpani ha fatto un lavoro che calza bene la partitura di Haydn e che permette agli ascoltatori di apprezzare la profondità del testo.
È noto che Franz Joseph Haydn tornò da Londra a Vienna con un libretto (di autore ignoto) in inglese, tratto da Paradise Lost di Milton, e che venne prontamente tradotto in tedesco. L’oratorio venne eseguito per la prima volta in forma privato nel Palazzo Schwarzenberg diretto dal compositore e con Antonio Salieri al clavicembalo. Dei grandi oratori di Haydn, Die Schöpfung è stato uno dei più applauditi nella prima metà dell’ottocento anche a ragione di un afflato religioso che andava perfettamente bene sia nel mondo cattolico sia in quello protestante. Anche oggi, nonostante la sua complessità ed il vasto organico che richiede, è uno dei più eseguiti: dal 1970 solo nei concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è stato eseguito dodici volte, sempre con la direzione di grandi bacchette internazionali.
Il lavoro è così noto che non necessita di presentazione. Nelle prime due parti (eseguite con una breve interruzione, ma senza intervallo), sentiamo il dissolversi delle tenebre e del caos, la nascita dei fenomeni naturali, del mondo vegetale, del regno animale ed infine dell’essere umano. La terza parte è l’incontro di amore di Adamo ed Eva. La creazione del mondo si ferma qui; non entra nella parte centrale di Paradise Lost (il serpente, la mela, la cacciata dal Paradiso), proprio in quanto l’oratorio è un inno di ringraziamento al Creator (“Fattor” nella traduzione di Giuseppe Carpani).
Sin dal primo attacco si avverte che la bacchetta di Sir John Eliot Gardiner è molto differente da quella di altri concertatori dell’oratorio: può sembrare lenta, ad esempio, a chi è avvezzo a quella di Leonard Bernstein, che accentua le sonorità e dà un tocco quasi tardo romantico (con echi dell’Ottava Sinfonia di Mahler) a quello che è il barocco più raffinato. Gardiner scava in questo barocco per mostrare come la grande eleganza si accompagni con lo spirito religioso. Mi ha ricordato l’esecuzione di Sinopoli di trent’anni fa in quanto quest’ultima era intrisa di filosofia, come spesso quando il mai troppo compianto maestro veneziano era sul podio. Gardiner mostra, correttamente, un barocco differente nelle prime due parti (dove prevale la descrizione dei fenomeni naturali e del sorgere del mondo vegetale ed animale) da quello della terza, dove l’accento è sull’amore coniugale, grato al Signore, ma anche molto terreno. Viene immediato il riferimento ad un’altra esecuzione di Gardiner: quella della trilogia di Monteverdi portata nel 2017 in giro per il mondo, con tappa in Italia al Teatro La Fenice di Venezia. Le sonorità, peraltro sempre ben controllate nelle prime due parti, diventano soffici, morbide nella terza.
Le parti vocali sono state affidate ad un soprano tedesco ed ad un tenore ed ad un basso baritono italiani (provenienti, per di più, dalla stessa “scuola”, la AsLiCo). La prima, Lenneke Ruiten, ha una voce chiara, limpida ma ha avuto difficoltà, soprattutto nella dizione e nel fraseggio, nel primo tempo dell’esecuzione; si è ripresa nel lungo duetto d’amore del secondo tempo. È avvezza a cantare Lieder ed anche opere ma in teatri e sale di concerto di dimensioni molto più piccole del grande auditorium intitolato a Santa Cecilia (per tremila spettatori). Molto bravi Giovanni Sala e Roberto Lorenzi. Il primo è chiaramente già un maturo tenore verdiano con un buon registro di centro, un bello squillo ed ottime mezzevoci. Il secondo spicca per il fraseggio ed il legato.
Ottimo, come sempre il coro, collocato nella galleria sopra l’orchestra con effetti stereofonici.
Sala più piena del solito, in questi tempi di pandemia. Ovazioni più che applausi.
Giuseppe Pennisi