VERDI I Lombardi alla prima crociata G. Gipali, A. Esposito, A. Meade, F. Meli, A. Di Matteo, J. Sanders, G. Capoferri, L. Bini, A. Zabala; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Michele Mariotti regia Stefano Mazzonis di Pralafera scene Jean-Guy Lecat costumi Fernand Ruiz
Torino, Teatro Regio, 28 aprile 2018
Nel breve filmato inserito dalla regia nella nuova produzione torinese dei Lombardi alla prima crociata un corvo cala sui cadaveri di un desolato campo di battaglia e punta sinistramente gli occhi sulla platea. Col senno di poi, i superstiziosi avranno ragione di pensare al solito uccellaccio del malaugurio, visto che le recite dell’opera verdiana sono iniziate con un sovrintendente e si sono chiuse con un altro, nel giro di una decina di giorni, in un clima di polemiche. Dopo diciannove anni Walter Vergnano ha lasciato (ufficialmente per ragioni personali) in anticipo rispetto alla scadenza naturale prevista per il 2019, con una decisione che, a dire il vero, era nell’aria da tempo e che ha comportato l’automatica decadenza del direttore artistico, Gastón Fournier-Facio e del direttore musicale, Gianandrea Noseda. Fulminea la sostituzione con William Graziosi, già amministratore delegato della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, condotta con appoggio “pentastellato” e approvata con contrasti dal Consiglio di Indirizzo del teatro. In itinere (brevissimo…) c’era stato l’appello di alcune personalità della cultura cittadina in difesa dei meriti della ormai passata gestione, accompagnate da commenti perplessi sulla qualità del curriculum del nuovo incaricato. Nel momento della redazione di questo articolo la situazione risulta alquanto confusa, con scoop “esplosivi” che si susseguono a distanza di ore. Come il clamoroso spazio dato da importanti giornali americani a una lettera con la quale Noseda, a seguito dell’annullamento della tournée negli USA prevista per la prossima stagione determinato dalla mancanza di adeguati sponsor e fondi, dichiarava nella sostanza di non voler avere più nulla a che fare con il Regio. E, più inquietante e sconcertante, il successivo intervento di Vergnano volto a “svelare” le vere ragioni del suo abbandono: un buco del bilancio 2017 di cui avrebbe avuto conoscenza solo a inizio aprile, di natura e entità per ora non precisate. Non è questa la sede per un ulteriore approfondimento, mancando ancora del resto incontrovertibili elementi di valutazione. Difficile però non condividere le sacrosante osservazioni del collega Alberto Mattioli sulla «Stampa» e cioè che in un bailamme dove le peggiori prassi italiche sembrano riaffiorare in modo preoccupante l’unica notizia assente riguardi proprio ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe esserci e cioè un dibattito serio, costruttivo, qualificato, sorretto da un’autentica visione progettuale che abbia a cuore l’identità oggi migliore per un’istituzione tanto importante. Lo meriterebbero (e lo pretenderebbero) il Regio, la cui crescita artistica negli anni rimarrà comunque un fatto indiscutibile, il suo pubblico e la Città intera.
Ciò premesso per dovere di cronaca, non resta che tornare ai Lombardi, assente dalle scene torinesi da oltre novant’anni, in linea con il suo destino di opera rara perché di transizione, schiacciata nei repertori dai più compiuti esiti di Nabucco e Ernani e tuttavia, come ha lucidamente illustrato Paolo Gallarati nel programma di sala, degna di attenzione proprio per «l’audacia dello sperimentalismo» con il quale il giovane Verdi «sottopone la vocalità belliniana e donizettiana ad una sorta di deformazione espressionista, cogliendo la forza primigenia della passione». Su questa strada verranno risultati straordinari, ma qui c’è il laboratorio, spesso esaltante nei suoi ribaltamenti continui, nelle sue intuizioni e anche nelle sue ingenuità. Per poterlo percepire in pieno è però indispensabile una lettura musicale capace di tenersi in perfetto equilibrio su quei contrasti, toccandone il limite estremo senza mai valicarlo. È quanto è riuscito a Michele Mariotti, che non solo ha cesellato con delicatezza e trasparenza (com’era prevedibile) la cantabilità trasognata e malinconica, di sapore ancora preverdiano, della partitura, ma ha altresì dimostrato come le molte sue pagine febbrili, irruenti, arroventate e finanche quelle apparentemente più bizzarre e decorative possano reggere qualsiasi insidia qualora ne venga sottolineata l’irresistibile pulsazione e originalità ritmica nel quadro di una eleganza di fondo ferrea e costante. Così, nelle sue mani, l’opera ha perso qualsiasi connotazione di volgarità o banalità, risultando capace di interessare e coinvolgere con continuità, anche nelle sue debolezze. Si aggiunga il sostegno dato ai solisti nello stacco dei tempi e nelle sonorità, l’attenzione riposta nel differenziare i da capo delle cabalette, la disciplina del forte impegno del coro e l’equilibrato peso attribuito al frequente susseguirsi dei momenti d’insieme, e si avrà il quadro di una direzione completa, già matura e non priva di una valenza rivelatrice. Molta attesa circondava anche la prova dei cantanti, rivelatasi sostanzialmente all’altezza del non facile compito. I favori del pubblico sono andati innanzitutto a Angela Meade, che ha colpito per la sicurezza, la disinvoltura e l’impegno con i quali ha affrontato Giselda, eseguendo con diligenza e partecipazione la preghiera del primo atto e il cantabile del secondo, mentre ancora di più ha impressionato per l’impeto e l’accento della successiva cabaletta e lo slancio ardito di quella del quarto. A rigore si potrebbe osservare che i suoi limiti, per quanto ben compensati da un materiale vocale di qualità non eccelsa ma non comune, riguardano in primis la genericità del fraseggio, quindi, in parte, un legato non di primissimo ordine e la tendenza a un’emissione che privilegia il mezzoforte o il forte, con suggestive filature di singole note, ma mai una frase intera in pianissimo. Inoltre, a fronte di acuti lanciati impavidamente sta talora un’intonazione non irreprensibile, come non veramente sciolto è il dominio delle agilità. Difficile comunque non riconoscere al soprano americano la generosità di una prestazione d’effetto e il merito di avere reso plausibilmente un’idea della complessa vocalità della parte.
A seguito dell’evoluzione del repertorio, la voce di Francesco Meli dimostra di essersi decisamente irrobustita, con un arricchimento degli armonici e, più ancora, una capacità di proiezione del suono davvero notevoli (a tratti persino eccessiva, la seconda, con il risultato di coprire persino i mezzi pur cospicui del soprano). Ciò che il timbro ha perso in purezza, ha acquistato sul piano dello smalto e della lucentezza, che esaltano la sempre magnifica dizione, mentre l’emissione appare un poco irrigidita e la salita agli acuti continua ad essere il suo tallone d’Achille (vedasi la variante di tradizione dell’aria d’esordio, un po’ faticosa). Detto ciò, Oronte continua a essere nelle sue corde perché se nell’approccio a «La mia letizia» ha privilegiato un andamento e un tono quasi eroico più che estatici aneliti, senza troppo mettere a frutto i segni d’espressione, già nel successivo andante e, particolarmente, nel duetto con Giselda del terzo, è stato prodigo di quelle sfumature e di quelle dolcezze necessarie per rendere in pieno la sognante tenerezza dell’amoroso romantico che è la vera cifra del personaggio. Come Pagano, Alex Esposito si è speso molto e, nell’insieme, apprezzabilmente. Ma, per quanto ambigua, la parte richiede a chi l’affronti una serie di caratteristiche che sono già quelle tipiche del basso verdiano, quali la pienezza delle note gravi e la corposa sostanza del canto pensoso, severo.
In Esposito è la gamma baritonale a prevalere, ben tornita, brunita e servita da un accento incisivo, che lo ha reso più convincente quale vendicativo fratello che come saggio eremita pentito. Un pallido Arvino è stato Giuseppe Gipali, mentre nei ruoli minori hanno figurato soprattutto le due interpreti femminili, entrambe al di sopra degli usuali standard medi: Lavinia Bini, una Viclinda nobile e svettante nel concertato del primo atto, Alexandra Zabala, limpida e luminosa Sofia. In merito allo spettacolo (una coproduzione con Liegi, lì usata anche per Jérusalem) c’è poco da dire, se non che si è persa l’occasione, per un titolo così poco frequentato ma ricco di stimoli, di aggiungere alla riflessione musicale anche quella teatrale. Scegliere un’impostazione “fedele” al libretto non significa rinunciare alla regia. A prescindere dalla mediocrità delle scene e da qualche stravaganza nei costumi che i devoti alla saga cinematografica del Signore degli Anelli non hanno mancato di rilevare, neanche i più inflessibili tradizionalisti possono oggi accontentarsi di una semplice gestione delle masse e dei cantanti in entrata e uscita dalle quinte o di armigeri che muovono (malamente) le lance avanti e indietro a suon di musica. Quando poi affiora un’idea, le cose vanno ancora peggio. Mi riferisco allo schermo inopinatamente calato per consentire la proiezione di alcuni spezzoni dell’Aleksandr Nevskij di Ėjzenštejn quale sfondo e commento all’interludio guerresco che precede la quinta scena dell’atto conclusivo. Non solo un innesto praticamente contro natura alla luce dello stile (se così può essere chiamato) dell’allestimento, ma anche un fatto fuorviante visto che in quelle memorabili immagini il grande regista aveva voluto immortalare la disfatta dei Cavalieri Teutonici, storica derivazione dei Crociati, ad opera dei Russi. Il montaggio, funzionale alla specifica situazione verdiana, sembra far capire esattamente l’opposto, all’insegna di un discutibile pressapochismo culturale.
Il bilancio finale, ricavato dall’ultima replica, svoltasi nel pieno del clima di incertezza che ha investito il teatro, è quello di un grande successo, con ovazioni particolarmente insistite per Mariotti, messaggio esplicito dei torinesi volto a comunicare l’auspicio che quel podio, orfano di Noseda, possa essere occupato da una personalità altrettanto autorevole. Chi se non lui, allora?
Giorgio Rampone