VIVALDI Ottone in villa G. Semenzato, S. Prina, L. Cirillo, V. Buzza, M. Antenucci; Orchestra del Teatro La Fenice, direttore Diego Fasolis regia Giovanni Di Cicco scene Massimo Cecchetto costumi Carlos Tieppo
Venezia, Teatro La Fenice, 12 luglio 2020
Come si leggeva nelle locandine affisse nelle calli veneziane, la Fenice per la quarta volta risorge. E questa volta non dalle ceneri di un incendio, ma dalla più grave crisi del dopoguerra. E la risurrezione è solo parziale, purtroppo, come del resto sta accadendo in tutto il negletto mondo dello spettacolo dal vivo. Fa ben sperare, ma lascia anche l’amaro in bocca.
Il Teatro veneziano, in verità, ha fatto miracoli: in breve si è reinventato. Via le poltrone dalla platea, che ora è tutto spazio scenico e per l’orchestra. Sul palco è posizionata una struttura permanente che richiama la chiglia di una nave in costruzione, rimando all’idea dell’acqua così legata a Venezia ma anche «ad un’arca che ci traghetta fuori dalla tragedia che ci ha colpito», secondo le parole del sovrintendente Fortunato Ortombina che ne ha avuto l’idea. Sul piano inclinato del palcoscenico, che copre la buca dell’orchestra rialzandola e collegandola al palcoscenico, sono ricavati una cinquantina di posti: «un’immagine che non vuole ricordare l’idea di un naufragio, quanto piuttosto quella di un’arca che ci traghetterà tutti in avanti, in un mondo nuovo» (ancora Ortombina). Complessivamente rimangono circa 350 posti dei 1100 pre-Covid. Un teatro pressoché vuoto, che fa una certa impressione, ma bisognerà farsene una ragione.
Primo titolo di un cartellone per forza di cose rivoluzionato — il lockdown è costato 11 milioni di euro in meno alla biglietteria della Fenice chiusa dal 23 febbraio — l’Ottone in Villa di Antonio Vivaldi, prima opera del musicista veneziano, andata in scena per la prima volta a Vicenza nel 1713. Un titolo che ben si adatta alla situazione contingente: una durata limitata a due ore di musica, soli cinque personaggi, assenza di coro, un’orchestra ridotta e senza particolari esigenze scenografiche.
Queste ultime sono state risolte dal regista Giovanni Di Cicco facendo di necessità virtù: i personaggi si muovono sul praticabile che dal palcoscenico scende in platea, entrano ed escono dalle scale laterali della platea. Pochi movimenti, sempre a debita distanza quasi a rappresentare materialmente l’incomunicabilità e l’estraneità tra di essi. Una mise en éspace che si riduce a pochi ed ordinati movimenti e a qualche ammiccamento danzante e seduttivo della bella Cleonilla, donna sensuale che divide i suoi interessi erotici tra il «giovane bellissimo» Caio e il «forestiero» Ostilio, sotto le cui vesti maschili si cela in realtà la giovane Tullia. Ma il limite maggiore è stato di natura acustica: a seconda del posizionamento dei cantanti, rivolti verso la platea o verso il palcoscenico, la voce andava e veniva. Un problema che andrà sicuramente risolto, che non può essere unicamente affidato alle risorse della magnifica acustica del teatro.
I brutti costumi moderni di Carlos Tieppo, vagamente stranianti nelle loro asimmetrie — a parte le vesti colorate e «barocche» di Cleonilla — poco contribuiscono all’atmosfera generale. Qualche elemento scenico avrebbe sicuramente giovato, alludendo all’ambientazione agreste del libretto di Domenico Lalli. Tutto, pertanto, è stato affidato alla musica. L’opera è un’infilata di recitativi e arie (28) di bella fattura: alcune volano basso, molte però possiedono già il fascino delle grandi pagine vocali vivaldiane: scatti ritmici insolenti, vocalizzazione stretta, quasi strumentale — in alcune arie riecheggiano temi che si sentiranno nei tanti concerti del Prete Rosso — un melodizzare ampio e seduttivo che incanta. Con qualche bella trovata strumentale, come il violino obbligato nell’aria finale di Caio a raddoppiare la linea vocale all’ottava superiore con addirittura un’ampia cadenza improvvisata, le leggere strutture di accompagnamento a due o tre parti per lasciare fluire il canto, i repentini cambi di tempo. Un barocchista esperto come Diego Fasolis ha trovato pane per i suoi affilatissimi denti. Seduto al secondo clavicembalo, ha impresso ai bravissimi musicisti (una ventina in tutto) scatto ritmico e accesa fantasia coloristica, impegnandosi a rendere vivo un lavoro che in certi punti rischia di addormentarsi. Merito anche di alcune presenze vocali, come quella del mezzosoprano Lucia Cirillo nella parte di Caio, cui sono affidati i momenti più ispirati dell’opera: la bellissima aria in eco o quella dell’«augelletto», nella quale l’orchestra riproduce il canto degli uccelli, con piacevolissimi effetti mimetici. La Cirillo canta con partecipazione, con bella e sicura vocalità riuscendo a dar vita al suo personaggio di amante appassionato e tradito.
Cleonilla era il soprano Giulia Semenzato: bella figura scenica, intelligente nel sottolineare il lato frivolo del suo personaggio, cui però sono assegnate le arie forse meno ispirate dell’intero Ottone. Buona anche la prova di Michela Antenucci nei panni di Tullia/Ostilio. Il tenore Valentino Buzza era Decio, confidente di Ottone, che ha avuto il gran merito di imprimere energia e sangue ad un ruolo abbastanza scarno. La parte del titolo era affidata ad una grande esperta di questo repertorio, il contralto Sonia Prina, che ha già portato a teatro questa parte oltre ad averla incisa. L’impressione è quella registrata anche in occasione del suo Orlando furioso veneziano del 2018: la voce è come spezzata in due tronconi, con un registro grave enfatico e spesso privo di appoggio, e quello acuto faticoso e secco. Un eccesso di irruenza porta a scomporre la linea vocale delle sue arie e ad arruffare talvolta i difficili vocalizzi di cui è costellata la parte. Palpabile alla fine la commozione del pubblico, di tutti i musicisti e delle maestranze per questo primo ritorno in scena dopo il difficile lockdown. Davvero meritato il plauso al teatro veneziano per aver riaperto le porte ed aver voluto a tutti i costi lanciare un segnale di ritorno ad una qual normalità.
Stefano Pagliantini
(Foto: Michele Crosera)