JANÁČEK Kát’a Kabanová S. Richardson, C. Workman, S. Bickley, J. Hubbard, C. Winters, S. Furness, C. Sproule, L. Zeman; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore David Robertson regia Richard Jones scene e costumi Antony McDonald luci Lucy Carter movimenti coreografici Sarah Fahie
Roma, Teatro dell’Opera, 18 gennaio 2022
Fu forse il grande amore per la letteratura russa ad indurre Leoš Janáček nel 1920 ad interessarsi al dramma di Ostrovskij Il temporale (1859), pubblicato in ceco nel 1918 da Vincenc Červinka. Il soggetto era stato però già trattato librettisticamente nel 1867 da Vladimir Kasperov per il Teatro Mariinsky di Pietroburgo. Del resto di questo amore erano stati testimonianza in precedenza il Trio con pianoforte (1909) ispirato alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj e la rapsodia sinfonica Taras Bulba (1918) da Gogol e si sarebbe chiuso con la sua ultima opera Da una casa di morti, ispirata a Dostoevskij. Ad affascinarlo erano state una storia d’amore dalle tinte cupe e dall’esito tragico e la vibrata protesta contro l’autoritarismo miope e bigotto del mondo mercantile e della società borghese del tempo. E non poco la scelta fu determinata anche dall’improvvisa scintilla amorosa scoccata per la giovane Kamila Stösslová.
Nel redigere il libretto Janáček ridusse a tre i cinque atti originali, sfoltendo saggiamente il numero dei personaggi coinvolti e rendendo più densa e drammatica la vicenda (poco più di un’ora e mezza di musica) in tre quadri essenziali: la partenza del debole marito, il travagliato tradimento in sua assenza, infine il suo ritorno, la confessione pubblica di Kát’a e il suicidio nelle fredde acque del Volga.
L’opera, presentata sulle scene per la prima volta a Brno nel 1921 e diretta l’anno seguente da Klemperer a Colonia, è arrivata incomprensibilmente solo ora per la prima volta all’Opera di Roma come primo titolo del nuovo anno affidato alla bacchetta di David Robertson e alla regia dell’inglese Richard Jones (scene e costumi Anton McDonald). Una coproduzione con il Covent Garden di Londra già insignita dell’Olivier Award nel 2017.
Una recente straordinaria edizione se ne era vista al San Carlo di Napoli sotto la splendida direzione di Valčuha e con la regia essenziale e simbolista di Willy Decker.
Janáček era rimasto affascinato da una cupa storia d’amore nel clima oppressivo del retrogrado e primitivo mondo mercantile russo. Il tema sociale e quello individuale, il ritratto di una società malata. autoritaria e ipocrita e il dramma di una donna si fondono indissolubilmente, esaltati da una musica potente, efficace nel raccontare la ineluttabilità del dramma con dei temi salienti. A prevalere nella caratterizzazione sono i ruoli femminili dai tratti dominanti di un matriarcato ancestrale.
La chiave di lettura di quest’opera, tra ossessione e aneliti di libertà, doveva cogliere il clima opprimente e claustrofobico della vicenda, collocata in un luogo anonimo (una spoglia stanzona chiusa da pareti di assi di legno) e probabilmente nella prima metà del Novecento.
Predominano nell’allestimento romano le tinte sfumate e grigie nei costumi di Anton McDonald, a rappresentanza di una umanità sbiadita e incolore. Così come anche l’esplosione che cova nell’ animo della protagonista (il temporale dell’anima che viene in simbiosi con quello atmosferico) ed il suo anelito alla libertà contrastano con l’apparente silenziosa tranquillità del mondo naturale esterno. L’allestimento abbandona così il disdicevole ritratto oleografico della provincia russa per una collocazione fortemente caratterizzata in senso psicologico, una scelta che conferisce alla musica tratti realistici di sicuro effetto.
Nel dipanare la matassa sinfonica, di forte e crescente intensità drammatica, il direttore australiano David Robertson ha saputo conferire il necessario rilievo alla potenza evocativa sonora della parola, come richiesto da Janáček, ossessionato dallo scoprire la relazione profonda tra il significato delle parole e la loro configurazione sonora. Sicché la sua musica scaturisce direttamente dalle potenzialità musicali della parola.
Sul palco, segnato da luci algide, si muoveva un cast d’eccezione forgiato nello stile di Janáček a partire dalla minuta protagonista Corinne Winters, soprano di grande impatto vocale e attoriale. Intorno a lei nei panni del debole marito Tichon e della ipocrita suocera Marfa, rispettivamente il tenore Julian Hubbard e il rodato contralto Susan Bickley (una suocera da manuale), in quelli dell’amante Boris l’appassionato tenore Charles Workman e nella coppia giovane e complice (Varvara e Kudrjaš) il mezzosoprano Carolyn Sproule e Sam Furness, sola oasi di spensieratezza in tutta l’opera. Alla fine fragorosi applausi per un allestimento che riducendo, ma non rinunciando purtroppo ai due intervalli di rito (nonostante il recupero dei brevi Interludi entr’acte scritti nel 1927 da Janáček proprio per ricucire i tre atti e riscoperti nel 1961 da Charles Mackerras), ha saputo condensare ancora di più il dramma in un unico deprimente ambiente e in un più angusto spazio temporale. Allestimento in cui gli uomini appaiono come maschere senza volto o marionette in balia del destino.
Lorenzo Tozzi
Foto: Fabrizio Sansoni / Clive Barda