ROSSINI Il Barbiere di Siviglia A. Luongo, A. Stroppa, M. Macchioni, P. Bordogna, G. Giuseppini, S. Di Capua, R. Maietta, L. Alberti; Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Alvise Casellati regìa Filippo Crivelli scene Emanuele Luzzati costumi Santuzza Calì
Genova, Teatro Carlo Felice, 19 gennaio 2020
Il 2019 operistico del Teatro Carlo Felice si è concluso con una ripresa della coloratissima Bohème firmata da Francesco Musante: i lettori di Musica ne troveranno la recensione sul numero in uscita tra pochi giorni. Quasi a formare un pendant, l’anno nuovo si è aperto con la riapparizione, breve ma intensa (sei recite in una settimana!), di un altro spettacolo dal forte impatto figurativo, forgiato da un artista alla cui cifra stilistica Musante è sempre stato accostato, ovvero Emanuele Luzzati: e precisamente Il Barbiere di Siviglia creato con Filippo Crivelli e Santuzza Calì per il San Carlo una ventina di anni fa, e già approdato sulle scene genovesi nel 2014 (ne avevamo riferito all’epoca, sempre sulle pagine online di Musica). Uno spettacolo che non invecchia e forse non invecchierà mai: grazie alla pura bellezza del decoro, forse meno favolistico di quanto ci abbia abituato Luzzati ma non per questo meno appagante e stimolante (quel patio arioso e verdeggiante in cui è ambientata tutta la seconda parte del primo atto; quella magia floreale che appare improvvisa per il matrimonio di Rosina e Almaviva!); grazie all’animazione e al puro divertimento offerto dall’azione scenica, che accoglie un irresistibile concatenarsi di gags vecchie e nuove (facendosi perdonare qualche controscena di troppo); e grazie alla fantasia continuamente all’opera, concretizzata anche nella geniale, fantasmagorica oggettistica di scena congegnata dal compianto artista genovese – la chitarra-necessaire di Figaro, il paravento multiuso del primo Finale, la mobilissima poltrona-carrozzella da barbiere del secondo atto. Una fantasia così straripante da tracimare oltre i ruoli cantati ed elevare a vero coprotagonista uno stralunato Ambrogio (qui come nel 2014, il bravissimo Luca Alberti), tanto presente in scena da meritarsi pienamente una settima sedia per la Stretta «Mi par d’esser con la testa / in un’orrida fucina».
A tanti pregi si è aggiunto, in questa ripresa, un cast estremamente credibile e coinvolto, che infondeva allo spettacolo un’ulteriore aroma di freschezza e giovinezza. Ne ha gradualmente assunto la statura di mattatore Paolo Bordogna, un Bartolo vulcanico, che finisce per rendersi simpatico calamitando sempre l’attenzione quando è in scena: musicalmente il cantante lombardo è duttile e preciso, perfino nel sillabato di «A un dottor della mia sorte» staccato a un tempo impegnativo, prendendo alla lettera l’indicazione Allegro vivace. Suo perfetto complice il Figaro di Alessandro Luongo, tanto brillante da far rischiare allo spettacolo il… naufragio per «ridarola», per una movenza un po’ caricata alla battuta «Scusi, son debolezze» subito dopo il «Minuetto» del tutore. Il baritono quarantunenne rimane impresso per il singolare contrasto tra la «maschera» un po’ seria e l’estrema spigliatezza della recitazione; sembrerebbe un Figaro che, pur nel volitivo ottimismo che guida i suoi passi nell’azione, non ha perso memoria di una passata «miseria» a cui scherzosamente allude nel primo colloquio col Conte. Dal punto di vista vocale può mancare un poco, a tratti, la pura espansione e proiezione vocale di certi grandi Barbieri del passato (vedi l’incipit di «All’idea di quel metallo»), ma questo non è certo un limite che oggigiorno riguardi soltanto lui.
Vivacissima e molto «nella parte» anche la Rosina di Annalisa Stroppa, a cui forse si può rimproverare soltanto qualche eccesso nell’ornamentazione e note gravi della tessitura appena vuote: per il resto il velluto vocale è prezioso, e il canto capace di passaggi sensuali e maliosi, come «Ah tu solo, amor, tu sei» nel Duetto con Figaro, e poi il Terzetto del secondo atto; ad arrotondare in maniera non del tutto usuale la fisionomia caratteriale di Rosina, l’intensità della disillusione nel colloquio con Bartolo che precede il Temporale.
Purtroppo l’atteso René Barbera, dopo essersi esibito alla Prima, è caduto vittima del classico mal di stagione, e nella recita domenicale a cui ho assistito (sala esaurita, pubblico visibilmente soddisfatto) è stato sostituito all’ultimo momento, senza neppur poter effettuare una prova, da Matteo Macchioni, che era stato Almaviva nel secondo cast del 2014: il tenore emiliano ha dimostrato ottima memoria inserendosi alla perfezione nei complessi meccanismi scenici, proponendo efficacemente, ad esempio, i tic di Don Alonso; va rilevata inoltre l’ottima musicalità che dispiega su un materiale non particolarmente privilegiato dalla natura, che lo ha condotto a impersonare un Lindoro disinvolto macchinatore, anche se non molto seducente.
Siamo più abituati a vedere Giorgio Giuseppini alle prese con ruoli drammatici o patriarcali: in quest’occasione ha rivelato però ottime qualità anche nella corda brillante, presentando un Basilio decisamente autorevole in una «Calunnia» assai eloquente, anche se un po’ slegata dalla bacchetta direttoriale. Roberto Maietta ha portato in dote a Fiorello una vocalità piuttosto luminosa e una dizione trasparente; Simona Di Capua, oltre a cantare bene ed espressivamente, è giovane e carina, e trucco e parrucco non facevano nulla per nasconderlo: ma quando Berta lamentava «Ah vecchiaia maledetta!» la contraddizione si allineava con una certa naturalezza ai tanti divertissement e nonsense di cui è costellato lo spettacolo. La direzione piuttosto incalzante di Alvise Casellati (che aveva già partecipato alle recite del 2014), il mesmerico basso continuo di Sirio Restani e il positivo apporto di coro e orchestra hanno infine contribuito alla brillantezza del risultato.
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli