Il lettore fedele di MUSICA ricorderà, forse, che nel numero 310 (ottobre 2019) la copertina era dedicata al pianista norvegese Leif Ove Andsnes, intervistato durante il festival di musica da camera di Rosendal, da lui fondato nel 2016 e diretto da quell’anno fino ad oggi. Una manifestazione che si tiene in Norvegia, a sud di Bergen (Andsnes stesso è di quelle parti), in un piccolo paesino di poche centinaia di abitanti che ha la peculiarità di essere sede di una dimora baronale (Baroniet in norvegese), con tanto di maniero risalente al Seicento; e che possiede le due caratteristiche chiave del festival di successo, ossia un’ambientazione di raro fascino (è separato dal resto dell’Hardangerfjord da alte montagne e Rosendal si trova in posizione pittoresca sul fiordo, con alle spalle uno sfondo di alte colline) ed è lontano dalla “civiltà”. Il festival ha ogni anno un tema intorno a cui si articolano i 5 giorni di programmazione (nel 2019 era la musica di Shostakovich, sono poi seguiti gli anni dedicati a Brahms e Beethoven), e una serie di artisti ospiti di altissimo prestigio: per l’edizione 2024, tenutasi dal 7 all’11 agosto, Leif Ove Andsnes ha scelto un argomento apparentemente onnicomprensivo (quelle parole che permettono di inserire qualsiasi compositore e qualsiasi musica…), ossia “contrasti”, ma poi l’ha declinato in un settore molto più ristretto, quello della musica ungherese otto-novecentesca, da Liszt e Bartók fino a Kodály e Weiner, arrivando a Ligeti e all’ancora vivente Kurtág. In diretto contrasto (ma è poi così?) con la cultura magiara, la musica di Bach, con il culmine della Passione secondo Giovanni, a 300 anni dalla sua prima esecuzione: proponendo la quale, il festival di Rosendal ha compiuto il suo passo più coraggioso e complicato in termini organizzativi. E il pubblico, sempre molto numeroso nonostante il luogo – mi ripeto – sia tutt’altro che agevole da raggiungere e la pioggia abbia funestato l’intera manifestazione, ha premiato con calore gli artisti coinvolti.
Tra essi, come si diceva, nomi di grande prestigio, oltre al “padrone di casa”: non si può non ricordare almeno Vilde Frang, una delle più entusiasmanti violiniste viventi, il violista Antoine Tamestit, la pianista Zlata Chochieva e il clarinettista Wenzel Fuchs (prima parte dei Berliner), né dimenticare la cospicua presenza di Ruth Wilhelmine Meyer, vocal artist e compositrice che ha dialogato con la tradizione classica in molti concerti, a partire da quello di apertura, dove il suo The Loki Castle era costruito interamente su effetti fonetici affidati al coro (lo splendido Norwegian Soloists’ Choir diretto da Grete Pedersen: ne parleremo più avanti), in una ricreazione stereofonica di suoni marini (le balene, anzitutto) e suggestioni naturali, fino all’improvvisa citazione dell’Agnus Dei della Messa in Sol di Schubert. Nulla di inedito, va da sé, ma molto suggestivo. Ma la prima serata, più che per l’elegante resa di due Studi trascendentali lisztiani da parte di Zlata Chochieva o la brillante proposta dei Contrasti di Bartók da parte della stessa Chochieva con Fuchs e il violinista Florian Donderer, ha entusiasmato per l’esecuzione da parte delle due stelle norvegesi (Andsnes e Frang) della tremenda Sonata n. 1 di Bartók: qui la personalità sulfurea della Frang, che sembrava riplasmare ogni singola battuta, interagiva a meraviglia con il pianismo più rigoroso ma mai rigido di Andsnes, fino ad un finale di incredibile libertà e virtuosismo.
La seconda giornata (giovedì 8) partiva con un omaggio a Kodály e alcuni dei suoi bellissimi Duetti per violino e violoncello (Donderer e Victor Julien-Laferrière); faceva quindi scoprire una personalità di spicco dell’Ungheria novecentesca come Erzsébet Szönyi (ma i suoi Cinque preludi, degli anni ’60, vivevano di un epigonalismo schönberghiano non particolarmente interessante) per approdare infine al Quartetto n. 1 di Ligeti, dove convivono l’impronta bartókiana insieme a un senso tutto personale di ironia e sorpresa, che il giovane Quartetto Agate, residente al Festival, ha benissimo reso. Al pomeriggio, era la volta dell’accostamento tra Kurtág e Schumann, due compositori che – nelle parole di Andsnes – vivono di “una espressività diretta, senza filtri”: e più che le pagine schumanniane (dei Fantasiestücke piuttosto di routine e un Quartetto con pianoforte che neanche Vilde Frang riusciva a sollevare da una eccessiva prudenza) hanno colpito le esecuzioni del compositore ungherese. Splendidi, difatti, Andsnes e Tamestit in una scelta di pagine da Jatékok, con Wenzel Fuchs a sostenerli benissimo nell’Omaggio a R. Sch; e semplicemente perfetto il Norwegian Soloists’ Choir nell’impegnativo Omaggio a Luigi Nono. Alla sera, ci si trasferiva nella incantata chiesa medievale di Kvinnherad, che domina dall’alto il fiordo, per un bellissimo Gesang der Geister schubertiano (nella versione con due viole, due celli e contrabbasso), un Quartetto n. 6 di Bartók (ancora il Quartetto Agate protagonista) di lucida, quasi analitica intensità e, viceversa, un Quintetto con clarinetto di Mozart poco riuscito.
Il Festival offre i propri appuntamenti principali nella Grande Sala, un ex fienile riconvertito ad auditorium che ospita circa 400 persone ed è dotato delle più sofisticate tecnologie acustiche: ma non per questo rinuncia ad utilizzare altri spazi, come ad esempio una piccola sala di un museo nel parco geologico ai piedi della montagna. Una sorta di rifugio montano, dove ho ascoltato le sperimentazioni vocali della Meyer in dialogo con l’hardingfele, il “violino dell’Hardanger”, strumento in tutto e per tutto simile al violino tradizionale (se non per le decorazioni lignee) ma con otto o nove corde, quattro normali e le altre simpatiche, e il cui suono è accompagnato dal battito dei piedi. E ancora una volta la Meyer – sorta di Cathy Berberian norvegese – sembrava evocare atmosfere selvagge, primigenie con effetti vocali davvero sorprendenti: a lei si alternava una selezione dei notissimi (specie agli studenti) 44 duetti per due violini di Bartók, affidati a Donderer e ai due violinisti del Quartetto Agate. Dal pomeriggio di venerdì iniziava la parte barocca del festival: e con tutta sincerità non sono rimasto colpito né da Masato Suzuki (figlio di cotanto padre…) né dai musicisti che lo accompagnavano in due concerti bachiani, che avevano diffusi problemi di intonazione. Molto meglio alla sera l’esecuzione (già immortalata in CD Harmonia Mundi qualche anno fa) di tre Sonate per viola da gamba di Bach proposte da Antoine Tamestit alla viola moderna: certo, la tessitura coinvolta è quasi sempre in ambito medio-grave e questo rischia di ingenerare una certa monotonia, ma il dialogo tra lui e Suzuki è apparso brillante e interessante.
Come detto, la grande impresa del Festival di Rosendal (senza dimenticare la rara Via Crucis di Liszt eseguita l’ultimo giorno, alla quale non ho però assistito) è stata la Passione secondo Giovanni a 300 anni dalla prima: due esecuzioni (una alle 13, una alle 21: quasi 800 persone in totale, che corrispondono agli abitanti stessi del villaggio!) che hanno portato sul piccolo palco della Sala Grande una ventina di coristi e 15 strumentisti, oltre all’eccellente tenore Benedikt Kristjánsson, l’Evangelista, che si è fatto carico anche delle arie tenorili. Un’esecuzione che mi ha fatto riflettere sull’opportunità di proporre questo capolavoro non solo come oggetto “da concerto” nelle grandi sale, con cadenza eccezionale e con il concorso di moltissimi musicisti, ma come elemento irrinunciabile dell’educazione musicale ed estetica di qualunque appassionato di musica: qualcosa purtroppo alieno dal mondo musicale italiano (e forse cattolico), ma ancora vivo in quello protestante. Il coro, più volte citato, offriva anche le voci per le arie soliste: e ho ascoltato artisti e artiste dall’emissione sana, educata, senza quella fissità “nordica” una volta così caratteristica, ma anzi pronti a piegarsi a inaspettate raffinatezze. Nelle parti d’assieme poi, più che i corali – intonatissimi, certo, ma forse carenti di qualche ulteriore sfumatura – impressionava l’esattezza contrappuntistica dei cori più intricati, a conferma di una civiltà musicale davvero notevole: la direttrice, Grete Pedersen, si prendeva anche l’incarico di coordinare il piccolo ensemble strumentale, certamente inferiore per esattezza e qualità timbrica alle voci ma nondimeno più che soddisfacente. Se si trattava di una sfida, sembra superfluo dire che essa sia stata ampiamente vinta.
L’edizione 2025 del Rosendal Chamber Music Festival sarà incentrata sul genius loci, Edvard Grieg (e probabilmente altri compositori a lui correlati: il programma è ancora segreto). La scelta più semplice arriva a nove anni dalla prima edizione: a conferma della qualità di un festival piccolo, ma grande per ambizioni e coraggio.
Nicola Cattò
Foto: Liv Øvland