HÄNDEL Theodora L. Oropesa, J. DiDonato, M. Spyres, J. Chest, Paul-Antoine Bénos-Djian, Massimo Lombardi Orchestra e Coro Il Pomo d’Oro, direttore Maxim Emelyanychev
Milano, Teatro alla Scala, 20 novembre 2021
L’orchestra Il Pomo d’Oro suona agile e leggera, guidata da uno spiritato Maxim Emelyanychev al clavicembalo. Agile è il coro, agili sono le voci di Lisette Oropesa, Joyce DiDonato e Paul-Antoine Bénos-Djian, le tre stelle protagoniste dell’esecuzione scaligera in forma di concerto di Theodora, penultimo oratorio händeliano, ambientato ad Antiochia ai tempi delle persecuzioni contro i cristiani sotto l’imperatore Diocleziano. Possono essere sorprendenti una simile leggerezza e trasparenza in una partitura dai toni crepuscolari e lontana dalla solennità festosa dei più celebri oratori di Händel, il Messiah su tutti, ma ancora più sorprendente è stata la capacità degli interpreti di calarsi nella parola cantata senza rinunciare a questa trasparenza del timbro ed a questa leggerezza del ritmo, trovando sottili sfumature dinamiche e chiaroscuri timbrici.
Solisti, orchestra e coro erano in piena sintonia, in virtù di una indubbia eccellenza tecnica ma anche grazie alla direzione attenta e piena di vitalità di Emelyanychev, stabilmente alla guida del Pomo d’Oro dal 2016, in una serata riuscitissima, che avrebbe meritato una Scala strapiena di pubblico e che invece vedeva qualche sedia libera in platea e numerosi palchi per metà vuoti (o per metà pieni: dipende dai punti di vista). Il soprano Lisette Oropesa ha dato vita ad una Teodora — la nobile cristiana prima sottratta al martirio dall’amante, il soldato Didimo, e poi pronta a morire insieme a lui quando scopre che a sua volta l’uomo è stato condannato — piena di sofferenza e di incanti vocali. Lo si è apprezzato già nella prima aria e lo si è apprezzato nel corso dell’intero oratorio, in particolare nella celebre aria «in catene» con traversiere obbligato all’inizio della seconda parte, un vero e proprio colpo di genio della fantasia händeliana, con il traversiere che in alcune battute quasi sembra perdersi nel silenzio di tutti gli altri strumenti.
All’espressività travolgente di Lisette Oropesa faceva da contrasto — ma era un contrasto elegante — il tono più intimo dell’interpretazione del mezzosoprano Joyce DiDonato nella parte di Irene, la confidente di Teodora. Le delizie vocali di Joyce DiDonato erano un autentico miele per le orecchie degli appassionati, in una parte meno appariscente di quella della protagonista, in cui il mezzosoprano americano ha esibito in meraviglioso legato e un impeccabile controllo dell’emissione, dall’inizio alla fine della frase, con emozionanti messe di voce, soprattutto nelle regioni del piano e del pianissimo (penso all’aria “As with rosy steps the morn”, nella prima parte dell’oratorio). Tutte le arie di Irene sono dominate dalla dolcezza e dalla malinconia e tutte in questa serata scaligera sono state cantate con un nobile trasporto — vengono in mente la “nobile semplicità e la quieta grandezza” del Neoclassicismo di Winckelmann, a cui opportunamente fa riferimento Lorenzo Mattei nelle illuminanti note del libretto di sala, senza durezze nell’emissione e senza ombra di vibrato, in particolare “Defend her, Heaven, let angels spread” nella seconda parte dell’oratorio e “Lord, to Thee, each night and day” all’inizio della terza parte.
La stessa nobile malinconia ha caratterizzato i numerosi interventi del coro, espressivo e leggero insieme, impeccabile nei passaggi fugati e sciolto nel fraseggio senza però indulgere a una brillantezza fine a se stessa; erano da ammirare anche l’amalgama dell’insieme e l’amalgama con l’orchestra, che sono aspetti importanti se consideriamo il ruolo chiave svolto dal coro, quello di commentare i momenti salienti di questa vicenda edificante.
Di grande spessore drammatico è la parte dell’ufficiale romano Didimo, che alla Scala era affidata al contraltista Paul-Antoine Bénos-Djian e che nella prima esecuzione del 1750 al Covent Garden di Londra fu appannaggio di un allora ventiduenne Gaetano Guadagni, destinato a diventare uno dei più grandi castrati dell’opera del Settecento. Il fraseggio di Paul-Antoine Bénos-Djian è morbido e levigato ed il suo canto è di un’espressività quasi lancinante, in virtù di un’attenzione estrema a ogni dettaglio. In un’opera così intima, che è un vero e proprio gioiello di finezze musicali, avrebbe poco senso puntare sulla brillantezza del virtuosismo e sullo smalto della voce, infatti il controtenore francese ha cercato in tutte le sue arie la morbidezza e la continuità del fraseggio, trovando tra l’altro un perfetto equilibrio timbrico e dinamico con la voce di Lisette Oropesa. Ciò era particolarmente evidente nel duetto della seconda parte dell’oratorio, che potrebbe essere un duetto d’amore e che invece il librettista Thomas Morell ed Händel hanno trasformato in un sereno e casto addio alla vita, di un candore commuovente.
Apprezzabile anche la prova del tenore Massimo Lombardi nel piccolo ruolo del messaggero e del tenore Michael Spyres nella parte di Settimio, amico e confidente di Didimo, in possesso di un bel legato e una buona tecnica vocale, soprattutto nei passaggi di agilità, anche se negli acuti si avvertiva qualche durezza e la sua voce non spiccava per la bellezza del timbro. Alle arie di Valente, l’inflessibile governatore che condanna al martirio i due amanti, il baritono John Chest ha saputo infine dare i giusti fremiti e furori.
Luca Segalla
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala