La metamorfosi dell’Opera di Roma è tra gli eventi più sorprendenti degli ultimi anni nel panorama della lirica in Italia. Dopo il disimpegno di Muti e dopo un aspro conflitto con le rappresentanze sindacali, l’istituzione lirica capitolina sembrava destinata, nel 2014, ad una fine ingloriosa. Con molta fatica si è arrivati ad un accordo che ne ha garantito la sopravvivenza. La direzione del teatro si è poi messa a lavorare con grande intelligenza, salvando la stagione 2014-2015 e confezionando una stagione 2015-2016 di notevole interesse – forse la migliore in Italia – che ha consentito al pubblico romano di assistere a spettacoli di valore artistico assoluto. Di pari passo si è altresì assistito ad un rinnovamento del pubblico, obiettivo da tutti perseguito ma di rado realizzato; al Teatro Costanzi, più che altrove, l’acne giovanile sta insidiando il primato del botulino. In questo contesto, La Traviata “di Valentino” va valutata per ciò che è: un’esemplare operazione di cassetta e di marketing, grazie alla quale l’Opera di Roma, oltre a godere di un meritato momento di esposizione mediatica, ha rimpinguato le casse, sia con i ricavi della biglietteria sia con quelli derivanti dalla vendita dello spettacolo a teatri esteri. Onore al merito di Carlo Fuortes, dimostratosi manager di grande competenza e determinazione.
Però…I peana che hanno salutato questa Traviata come una grande riuscita non sono condivisibili. Si sono letti troppi resoconti che indugiavano su dettagli da sfilata haute couture: lo strascico di tulle, la liseuse di voile, il taffetà, le maniche a pipistrello…come se ciò bastasse a legittimare artisticamente un’operazione meramente decorativa, priva di sostanza drammatica e psicologica e musicalmente modesta. Per tacere delle scenografie di Nathan Crowley – lo scenografo dei film di Batman – inutilmente ipertrofiche, con quel gigantesco scalone di finto-marmo dal quale Violetta scende come una soubrette al festival di Sanremo. Nulla poi è più deludente degli artefici di uno spettacolo che spiegano le ragioni delle loro scelte: “non ho voluto una Traviata moderna e ridicola come se ne fanno molte oggi – ha detto Valentino – ho voluto una Traviata classica e splendida, e ho chiesto a Sofia Coppola di dare quel tocco moderno e sorprendente che la renderà speciale”. Tralasciando la contraddizione insita nella frase (ma come la vuoi ‘sta Traviata: moderna o no?), chiedo a coloro che quel tocco abbiano scorto di farlo notare anche ai più distratti, tra i quali il sottoscritto; in secondo luogo, chi conosce le regie di Vick, Carsen, Decker (solo per citare i primi “ridicoli” registi che mi vengono in mente) sa bene cosa sia una messa in scena moderna del più moderno dei capolavori di Verdi, in quanto destinato, fin dalla sua nascita, ad un pubblico contemporaneo che vi si potesse riconoscere.
Insomma: si abbia il coraggio di dire che questa Traviata è stata il pretesto per l’autocelebrazione di Valentino e per fare cassa. Non c’è niente di male, intendiamoci, visto che lo stilista è stato tra i finanziatori dell’operazione; purché non la si spacci per una grande Traviata. Sottoscrivo dunque quanto scritto dal quotidiano britannico The Guardian, alla cui capacità di sintesi m’inchino: “la lettura torpida e tradizionale di Sofia Coppola a stento si distingue da una produzione di routine di un teatro di provincia”.
Paolo di Felice