CALDARA Dafne F. Aspromonte, C. Vistoli, K. Skelton, R. Dolcini; Orchestra Barocca del Festival, direttore Stefano Montanari regia Bepi Morassi costumi Stefano Nicolao impianto scenico Gli Impresari
Venezia, Palazzo Ducale, 11 luglio 2015
Per il Festival “Lo spirito della musica di Venezia” il Teatro La Fenice ha allestito nella sfarzosissima sala dello scrutinio di Palazzo Ducale il “dramma pastorale” Dafne di Antonio Caldara, eseguito per la prima volta a Salisburgo nel 1719 in occasione dell’inaugurazione del teatro di verzura nel giardino del Castello di Mirabell in onore dell’arcivescovo della città austriaca. Un lavoro di cui nel nostro secolo si sono avute due sole rappresentazioni, nel 1972 al festival di Dubrovnik e più recentemente a Salisburgo, in edizioni però mutile di molte parti.
A Venezia è stato condotto un approfondito lavoro di scavo filologico che ha riguardato tanto la parte musicale, affidata al direttore Stefano Montanari, che quella scenica condotta dal regista Bepi Morassi, per valorizzare al massimo una partitura che, se non può dirsi un capolavoro, certo permette di delineare le caratteristiche di un musicista che, nato a Venezia due anni prima di Vivaldi e qui formatosi nel medesimo milieu musicale, non potrebbe essere musicalmente più distante dall’esuberanza e dal colorismo del Prete Rosso. Quest’ultimo rimase legato per tutta la vita alla sua città, mentre Caldara fu al servizio di principi e prelati in Italia (a Mantova e a Roma), in Spagna e infine, in qualità di vicemaestro di cappella, alla corte imperiale di Vienna, città nella quale morì nel 1736. Il suo stile risente degli ambienti musicali che si trovò a frequentare, a partire dal mondo dell’opera veneziana di Cavalli e Legrenzi fino a Händel, di cui fu successore a Roma presso la famiglia Ruspoli, unitamente a quel gusto tradizionalista e arcaicizzante lo rendeva particolarmente gradito agli ambienti di corte.
Come si diceva, l’operazione veneziana è risultata pienamente centrata dal punto di vista musicale grazie all’affidabilità del complesso “Orchestra Barocca del Festival”, composto da appena una decina di elementi ma capaci, sotto l’estro e l’impeto direttoriale di Stefano Montanari, di restituire un suono ricco e colorito, un fraseggio sempre vario e mosso, pienamente aderente agli sviluppi del labile intreccio drammatico. Si è rivelata poi pienamente azzeccata la scelta di mettere in scena il lavoro nella monumentale cornice della Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, rutilante di legni dorati e degli immensi teleri raffiguranti le vittorie navali dei veneziani in Oriente, spazio capace di rievocare l’ambiente di corte per il quale Caldara era solito comporre. In questo luogo soggiogante Bepi Morassi colloca la classica storia della ninfa Dafne, trasformata in alloro per conservare la propria virtù sfuggendo ai suoi innamorati. E lo fa ricostruendo le macchine sceniche barocche, tutte azionate a mano, di grande fascino nello lasciare allo scoperto i meccanismi degli effetti teatrali, come il mare in tempesta, lo scorrere delle acque del fiume nelle quale “si converte” Peneo, padre di Dafne, il “cangiarsi in lauro” della protagonista, la discesa di Febo dal cielo sul suo carro trionfale. A ciò si aggiungano gli sfarzosi costumi settecenteschi e la recitazione che si rifà alla gestualità barocca.
La compagnia di canto, tutta formata da artisti giovani, ha reso al meglio tutti gli aspetti della partitura. Straordinaria immedesimazione, appropriatezza stilistica e pieno dominio dei propri mezzi vocali ha mostrato il controtenore Carlo Vistoli, nell’impegnativo ruolo protagonistico di Febo, cui sono affidate le arie più intriganti di tutta l’opera: contrastanti tra quelle di genere patetico, arricchite di interventi strumentali solistici, a quelle impetuose nell’esprimere la sua passione incontenibile per la ninfa Dafne. Quest’ultima era impersonata da Francesca Aspromonte, soprano dalla voce piccola ma agilissima e limpida, che è venuta a capo della sua parte con sicurezza nei molti passaggi di agilità e con buona espressività, tratteggiando una giovane che più per dovere che per sentire trattiene i sensi all’amore dei due pretendenti: Febo e Aminta. Meno riuscita la caratterizzazione del pastore Aminta da parte di Kevin Skelton, la cui dizione arruffata ha reso poco sciolto e per lo più sopra le righe il personaggio. Ottimo il baritono Renato Dolcini quale Peneo/Giove, di cui si ricorda l’aria di lamento “Stillato in pianto”, intonata prima di trasmutarsi in fiume.
Stefano Pagliantini
© Michele Crosera