VERDI Ernani P. Pretti, E. Petti, M. Pertusi, A. Bartoli, G. R. Lo Greco, C. Olivieri, F. Milanese; Orchestra e Coro del Teatro La Fenice, direttore Riccardo Frizza regia Andrea Bernard scene Alberto Beltrame costumi Elena Beccaro Light designer Marco Alba
Venezia, Teatro La Fenice, 19 marzo 2023
Ernani è tra i lavori del primo Verdi uno dei più trascurati. Poco rappresentato, sconta una drammaturgia non pienamente riuscita, tesa tra gli estremi dell’epopea risorgimentale, da una parte, e del dramma borghese dall’altra. In questo quadro sono da intendersi le ampie pagine corali disseminate lungo i quattro atti dell’opera, i tratti impetuosi e lo sbalzo ritmico delle cabalette, accanto ai tentativi di costruzione di psicologie e modi espressivi nuovi, che si ravvisano in Ernani, eroe-innamorato, in Don Carlo, personaggio nobile d’animo, amante non corrisposto, dalla linea di canto aristocratica e suadente, e soprattutto nel ruolo del basso, Silva, figura dai tratti sfuggenti, ‘precursore’ dei futuri Fiesco, Procida o Banco.
Torna ora in scena nel teatro veneziano in cui fu rappresentato per la prima volta, nel 1844. affidato alla cura registica di Andrea Bernard, giovane regista e architetto bolzanino, già collaboratore di Damiano Michieletto, con all’attivo una nutrita serie di messinscena operistiche.
Di fronte al lavoro verdiano compie scelte non del tutto chiare, inventandosi una lettura psicanalitica del protagonista che appare però solo abbozzata. Nel preludio sinfonico un montaggio video mostra Ernani bambino che assiste alla morte del padre e alla distruzione del castello e la comparsa di un soldato dalle bianche ali che porge al piccolo il corno da caccia. Di questa premessa rimangono, poi, solo vaghi accenni: scampoli del castello scendono sul palcoscenico nello sviluppo degli atti e a più riprese si materializza il fantasma alato del padre a sottolineare alcuni degli snodi della vicenda. Uno fra tutti la consegna a Ernani del corno da caccia che sarà il segnale del destino di morte del protagonista. Per il resto scene e regia sembravano guardare al passato per la genericità nei movimenti delle (invadenti) masse corali e nella recitazione dei cantanti. Si sono visti, particolarmente in Elvira, le pose da cantante anni cinquanta con tutto l’armamentario di mani sul petto, braccia alzate e l’inginocchiarsi come non si vedeva da tempo. Qualche idea nella scelta dei costumi vagamente arcaicizzanti e caratterizzati da colori decisi: rosso per Elvira, arancione per l’ancella, nero per gli altri.
Musicalmente le cose vanno un po’ meglio, ma c’era sicuramente da aspettarsi di più. A cominciare dalla bacchetta insolitamente pesante di Riccardo Frizza, donizettiano di vaglia cui una partitura come quella verdiana avrebbe potuto offrire l’occasione per mostrarne le derivazioni dal teatro del Bergamasco. Una strada che in passato si è tentata e con qualche successo (si ricorda ancora l’edizione del Festival della Valle d’Itria del 1991 con Vincenzo La Scola, Daniela Dessì, Paolo Coni e Michele Pertusi nei primi anni della loro carriera). Niente di tutto questo: Frizza sceglie la strada dello sbalzo drammatico, delle tonalità corrusche e dei ritmi forsennati e opta per sonorità sempre tese e genericamente forti, senza che tutto questo si trasformi necessariamente in forza drammatica. Queste scelte influiscono anche sulla resa vocale dei solisti, anche se c’è da dire che la compagnia era ben assortita con alcune punte di eccellenza. Primo fra tutti il magnifico Silva di Michele Pertusi, artista dalla lunghissima esperienza e dalla voce ancora solida: il suo è un Don Ruy Gomez de Silva mellifluo, insinuante ma anche capace di imporsi per saldezza vocale e carisma scenico. Doti che avrebbe anche il baritono Ernesto Petti, la cui parte è tra le più impegnative pensate da Verdi per il baritono. Le note ci sono tutte e cantante anche con una certa facilità, ma manca quella nobiltà di accento richiesta dal suo personaggio, che è pur sempre il re di Spagna. E quanto cerca di sfumare e cantare a mezzavoce, come nell’attacco della sua aria “Vieni meco, sol di rose”, l‘emissione si fa artefatta. Meglio il protagonista, Piero Pretti: canto tutto sommato facile, acuti solidi, ma il personaggio stenta a delinearsi, generico com’è, poco fascinoso sia per presenza scenica che per timbro vocale.
Elvira ha la voce piena e ricca di armonici del giovane soprano veronese Anastasia Bartoli, che domina con sicurezza la sua difficile parte, sia nelle agilità che negli scarti verso l’acuto e verso il registro grave. Qualche genericità in meno nel fraseggio e un maggiore controllo nelle dinamiche, che il direttore avrebbe potuto suggerirle, ed avremo in futuro un’Elvira ideale.
Non si può infine dimenticare il coro istruito da Alfonso Caiani, che canta magnificamente il celebre “Si ridesti il Leon di Castiglia” e onorevolmente tutto il resto.
Stefano Pagliantini