VERDI La forza del destino F. Beggi, A. Netrebko, B. Jagde, M. Rahal, L. Tézier, A. Vinogradov, M.F. Romano, V. Berzhanskaya, C. Bosi, H. Li; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Leo Muscato scene Federica Parolini costumi Silvia Aymonino
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2024
L’opera “funesta” in un anno bisestile: tutte dicerie, ovviamente, perché la Forza del destino è un’opera assolutamente imprescindibile nel cammino artistico verdiano proprio per la sua singolarità drammaturgica, costituendo essa una tappa decisiva in quel processo evolutivo che dal Simone e dal Ballo porterà al Verdi maturo, quello di Don Carlo e Aida. E il compositore lo fa rivolgendosi, come ben sanno gli appassionati di cose verdiane, a una doppia fonte drammaturgica, all’iper-romantico dramma del Duca di Rivas (una sorta di Hugo spagnolo: e infatti la sua prima esecuzione fu una specie di replica della “battaglia di Hernani”) e, per la grande scena dell’accampamento, al Campo di Wallenstein di Schiller. La frammentarietà di quest’opera, passata per la grande revisione effettuata da Verdi in vista della ripresa scaligera del 1869, evidente nel terzo atto, quello di Velletri, chiede ai suoi esecutori, e specialmente al regista, di assecondarne la singolare natura: ed è questo il merito principale dello spettacolo di Leo Muscato, proposto per questa inaugurazione scaligera. L’elemento-chiave, come spiegato in un’ampia nota contenuta nel programma di sala dello stesso regista, è un grande elemento circolare, una “ruota del destino” cui i personaggi del dramma, pur muovendosi in senso contrario, tentano invano di sfuggire; la seconda caratteristica saliente, poi, è l’avere enfatizzato gli stacchi temporali indicati nel libretto di Piave tra i vari atti, portando l’azione da un Settecento di maniera del primo atto ai giorni nostri per l’ultimo. La guerra domina tutto: se nel giardino della tenuta del Marchese di Calatrava essa si visualizza in eleganti tableau vivant di soldati, con bellissimi riferimenti a certa pittura inglese del ‘700, col passare del tempo diventerà una euforia di popolo para-risorgimentale nel secondo atto (e qui le composizioni visive spaziano tra la pittura italiana e quella spagnola) per poi rivelarsi per quello che è, una tragedia immane che lascia solo morte e lutti sia nel primo ‘900 del terzo atto (quello, appunto, delle battaglie) che nello scenario di rovine e macerie del quarto, in un mondo a noi contemporaneo ma privo di facili riferimenti concreti. A simboleggiare il tutto, un albero, che ci appare nel rigoglio estivo, perde le foglie, si riduce a tronchi morti salvo poi, dopo la catabasi cristiana del terzetto con il suo messaggio di speranza, tornare a germogliare.
Quello di Muscato è un teatro che, a differenza di molti suoi colleghi odierni, non fa uso di tecnologia: si affidata agli strumenti tradizionali, confida in un senso estetizzante della bellezza (meravigliosa la composizione del finale del secondo atto, con quel gruppo di frati a piramide a sottolineare l’ascesi mistica, immerso in colori dorati) e con la sua piattaforma girevole permette di visualizzare non solo quanto viene narrato direttamente, ma anche l’azione — per così dire — secondaria. Didascalico? Forse, ma (e mi ripeto) quasi nessun regista ha saputo assecondare negli ultimi anni la delicata drammaturgia della Forza con tale coerenza e intelligenza. Un’opera in cui i personaggi e la folla sono paralleli, non si intersecano davvero mai, eppure sono sempre compresenti: un paradosso qui visivamente giustificato. Un lavoro, infine, che deve avere convinto moltissimo i cantanti coinvolti: raramente ho visto Anna Netrebko così coinvolta anche scenicamente. Il soprano russo (che ha ricevuto ovazioni dopo le sue arie, ma anche qualche buu alla fine da parte di gente che aspetta annualmente il sette dicembre per giustificare la propria esistenza in vita) mi ha davvero sorpreso: in splendida forma, ha mostrato mezzi naturalmente meno onnipotenti di un tempo (non è carino sottolinearlo, ma la signora ha 53 anni), e se qualche nota palesava spiacevoli fissità o un’intonazione non impeccabile, questo veniva riassorbito da una cura del dettato musicale ben superiore alla sua media, uno splendore del registro medio acuto tuttora invitto (anche e soprattutto in pianissimi di incantevole esattezza) e in un fraseggio dal fervore bruciante. La grande scena col Padre Guardiano, che è lo scoglio più arduo per ogni Leonora, veniva addirittura bruciata dal soprano russo con una passione incandescente, e lo squillo dei tanti si acuti finali, se non glorioso era comunque di assoluto pregio (e tra l’altro, sia detto en passant per i tanti passatisti: la somma Renata Tebaldi, cui questa serata era dedicata, nel medesimo punto faceva molta, molta più fatica della Netrebko).
A fronteggiarla c’era il compatriota Alexander Vinogradov, che mostrava la tipica emissione un po’ “indietro” dei bassi slavi, ma la cui vocalità era sufficientemente morbida e omogenea per rendere la grandezza spirituale di questa figura manzoniana: una prova, la sua, non indimenticabile, ma sicuramente apprezzabile. Brian Jagde, venuto a sostituire (come si sapeva da mesi…) un Kaufmann che oggi non avrebbe potuto cantare Alvaro in maniera accettabile, è in un certo senso l’opposto del tenore tedesco: robustezza a prova di bomba, grande volume, acuti sicurissimi, ma anche una voce leggermente “plastificata” (rubo il calzante aggettivo al collega Alberto Mattioli), una pronuncia spesso fallosa e una genericità espressiva buona per tutte le situazioni. Jagde si “beve” il tremendo terzo atto con una semplicità davvero incredibile: che questo poi basti, beh, è altro discorso. La Berzhanskaya, vera voce di falcon oggi in mutazione verso le parti di puro soprano (canterà a breve Tat’jana nell’Onegin) è certamente fuori parte come Preziosilla, ma ne esce a testa altissima in virtù di una voce ampia, squillante ed estesa, e di uno spirito indemoniato in scena. Un po’ l’opposto del festeggiatissimo Ludovic Tézier, che io trovo sempre un tantino monocorde, pur nella vellutata bellezza del suo canto opulento: ma siccome Don Carlo è personaggio monomaniacale, privo di evoluzione psicologica, Tézier lo ha reso benissimo. Ma certo, qualche sfumatura in più in “Urna fatale” (chiusa tra l’altro con la solita cadenzaccia di tradizione) non avrebbe guastato. Rimane da dire degli altri due ruoli che, con Preziosilla, erano quelli cui Verdi teneva di più: Carlo Bosi (Trabuco) si conferma l’unico vero erede della grande tradizione dei tenori comprimari italiani, da Andreolli e De Palma fino a Gavazzi, con la sua vocalità immacolata, rispettosissima della scrittura (trilli, acciaccature…) al servizio di un’arte della parola da indicare come modello assoluto, mentre Marco Filippo Romano è un Melitone impeccabile, sempre cantato e mai “parlato”, vivificato da un fraseggio di mercuriale vivacità (pur senza raggiungere i livelli, ahinoi inattingibili, del sommo Sesto Bruscantini). A guidare con mano sicura la serata il Maestro Chailly, che continuo a pensare non trovi in Verdi il suo autore d’elezione: dopo una sinfonia un tantino effettistica, la sua concertazione mi è parsa certamente precisa e competente, ma anche un po’ sfilacciata e troppo prudente. Va detto che, come succede sempre, l’inaugurazione scaligera porta con sé tali carichi di tensioni e aspettative che il lavoro del direttore è valutabile solo dopo alcune recite: ed è quello che farò anche quest’anno. Dell’eccellenza dell’orchestra è giusto parlare: ma la qualità incomparabile del coro guidato da Alberto Malazzi è quello che rende, ancora oggi, unica al mondo un’esecuzione verdiana alla Scala. Molti applausi durante l’opera (specie per Tézier e la Netrebko) e successo finale, guastato (forse per motivi extramusicali, come ha suggerito il Sovrintendente Meyer) dalle esuberanze sonore di qualche poveretto.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano © Teatro alla Scala